Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Admin (del 13/12/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 4112 volte)
{autore=villani gennaro}
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 GENNARO VILLANI   Titolo: VENEZIANA   Olio su cartone, 51,5 x 34,5 cm

Affascinante e significativa opera di Gennaro Villani, tanto da essere pubblicata a pagina 371 de "Il valore dei dipinti dell'Ottocento e del primo Novecento" del 1999 - 2000 edito da Umberto Allemandi & C. di Torino. L'opera è firmata "G. Villani" in basso a destra e riporta il titolo "Veneziana" a tergo.

Frequentò l’Istituto di Belle Arti di Napoli, allievo di Cammarano, da cui derivò il robusto impianto disegnativo che interpretò prima con gusto tonale e poi con inflessioni postimpressioniste dal denso colore. I dipinti di genere di soggetto napoletano, le figure, le marine e i paesaggi del Villani interessano le aree di collezionismo partenopeo sensibili alla pittura di derivazione ottocentesca. I prezzi sono normalmente compresi in un arco dai due ai cinque milioni, a seconda di dimensioni, qualità e soggetto dei dipinti, con punte superiori per gli oli di notevole impegno o di particolarissimo interesse topografico.

(Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento. X edizione, 1992 – 1993. Umberto Allemandi & C. Editore)


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 GENNARO VILLANI   Titolo: ASSUNTA   Olio su tela, 36 x 29 cm del 1915

Bellissima opera di Gennaro Villani di inizio secolo. Il dipinto ritrae Assunta, la sorella minore del grande maestro napoletano. Nata da seconde nozze dopo che la mamma Filomena rimase vedova del primo marito padre di Gennaro. Assunta diventerà poi suor Maria Egidia a Pompei. Di alta qualità pittorica. L'artista, con forza e delicatezza allo stesso tempo, riesce a farci entrare nella melanconia della giovane attraverso i suoi grandi occhi. La tela applicata su cartone è firmata e datata in basso a destra G. Villani 1915.

All'Istituto di Belle Arti di Napoli Gennaro Villani fu, con Viti e Crisconio, tra i migliori allievi di Michele Cammarano: da quel grande maestro, burbero e solitario, apprese il disegno — che è il fondamento della pittura —, lo studio del vero, la maniera sobria dell'impianto chiaroscurale. E fu caro anche a Gaetano Esposito, col quale ebbe una spirituale affinità nel «sentire» la pittura sopratutto come stato d'animo. A partire dal 1904 — quando iniziò a partecipare alle Promotrici napoletane — e per un quarantennio Villani fu costantemente presente alle più significative manifestazioni d'arte italiane e straniere: Roma, Torino, Rimini, Firenze, Parigi, Monaco di Baviera, Milano, Venezia, Bruxelles, Santiago, Barcellona; nel 1909 fu tra i promotori della prima Esposizione giovanile d'arte di Napoli (collegata al movimento «secessionista», confluito poi parzialmente nel futurismo); nel 1920 succedeva ad Alceste Campriani sulla cattedra di pittura all'Accademia di Belle Arti di Lucca. In precedenza aveva dimorato alcuni anni a Parigi, ove la lezione impressionista se vivacizzò in qualche modo il suo colore non alterò la sua sensibilità cromatica né attinse l'impianto realistico attraverso il quale da tempo era andata caratterizzandosi la sua fisionomia pittorica. Come era accaduto a Casciaro, a Ragione, a Scoppetta, egli trovò sulle rive della Senna un'atmosfera consona al suo spirito — formatosi nel clima di Giacinto Gigante, antesignano dell'impressione e della macchia — e motivi ispiratori capaci di arricchire la sua esperienza e dargli nuove emozioni. E del resto, se nel 1914 non avesse dovuto interrompere la sua permanenza in Francia per lo scoppio del conflitto mondiale, Villani avrebbe già visto schiudersi un avvenire di lavoro intenso e proficuo; già allora stentava a soddisfare le richieste di Montmartre, di Moulin Rouge, di Moulin de la Gallette che quotidianamente gli pervenivano dai mercanti parigini. L'ordito dei suoi dipinti era quello di un impressionismo palpabile, nutrito di esperienze dirette, talvolta acceso e crepitante. Nei suoi paesaggi il sole giocava sugli alberi, sulle case, sulle colline, sul mare, sotto le pergole e sulle tovaglie, sui bicchieri; giocava sull'allegria dell'estate e sulla malinconia dell'autunno. Egli fu il pittore delle armonie velate delle giornate di pioggia; colse la poesia fuggente del mare su cui fluttua l'ombra arabescata delle barche. Notava Roberto Bracco scrivendo di Villani: «Egli ha la capacità dell'estro improvviso e quella della riflessione, ha la facoltà dell'abbozzo rapido e sintetico, del segno pronto e definitivo, dell'accenno lieve e pur vivido ed essenziale, e ha l'opposta facoltà della elaborazione, della finitezza, della compiutezza; estensibile fino alle più delicate sfumature, alle più sottili intenzioni».

(Alfredo Schettini – Cento Pittori Napoletani – So.Gra.Me. Napoli, 1978)


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 GENNARO VILLANI   Titolo: NOCERA INFERIORE   Olio su cartone, 28 x 35 cm del 1937

Gennaro Villani non di rado si recava a Nocera Inferiore dove risiedevano alcuni cugini più anziani, anch'essi con cognome Villani. Il dipinto raffigura uno scorcio del paese eseguito con grande maestria e sintesi. Villani, vero padrone della materia, sfrutta in diversi punti il colore del cartone di supporto e con poche ma decise pennellate, dipinge il paesaggio preso dal vero. Il cartone è firmato a matita in basso a destra G. Villani. A tergo titolo e anno: Nocera Inf. 20 sett. 1937

Un ringraziamento particolare a Ena Villani, artista e figlia del maestro
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Di Admin (del 08/12/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 4487 volte)

Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) ha avuto, negli ultimi anni della sua vita, contatti con l’ambiente napoletano grazie all’incontro con il gallerista Lucio Amelio. Proprio a lui si deve la tiratura in 100 copie numerate e poi firmate da Warhol dell’opera “Vesuvio” (qui proposta) per la mostra ‘Vesuvius by Warhol’ tenutasi a Napoli nel 1985. Questa tiratura grafica, esclusiva di Lucio Amelio, va ad aggiungersi a quelle ufficialmente riconosciute dalla Andy Warhol Foundation for the Visual Arts di New York sul Vesuvio, ciascuna delle quali, invece, numerate in 250 esemplari. Oltre alle opere multiple, la mitica mostra contava 18 tele tutte sul Vesuvio. Il Vesuvio è rappresentato sempre in un’eruzione dai colori brillanti come emblema di una città in fermento, fonte di continue ispirazioni a chi sa guardarla nella sua infinita vitalità.  

Così Andy Warhol su Napoli in un intervista a Il Mattino di quegli anni: “Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come a New York. Quello che preferisco di più a Napoli è visitare tutte le vecchie famiglie nei loro vecchi palazzi che sembrano stare in piedi tenuti insieme da una corda, dando quasi impressione di voler cadere in mare da un momento all’altro. A Napoli c’è anche il pesce migliore, la migliore pastasciutta ed il vino migliore”. E ancora, sul Vesuvio:

''Ritengo che il Vesuvio sia molto di più di un grande mito, è una cosa terribilmente reale''.

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andy-warhol-serigrafia

L'opera, in nostro possesso, è corredata di certificazione di autenticità e provenienza della galleria Rosini - Guttman & C. di Riccione, collezionisti e tra i massimi esperti di Andy Warhol in Italia.


La pop-art è stata la "corrente" artistica più longeva del Novecento, anche se il movimento in quanto tale ebbe poco più di un decennio di vita: il suo periodo eroico si può infatti collocare dalla fine degli anni 50 a tutti i 60.

I segni della vita quotidiana entravano massicciamente nella pittura e nella scultura e l'arte pop si apriva come una finestra sul mondo e come reazione all'espressionismo astratto, estremo introverso atteggiamento artistico, ma anche come interesse per la nuova comunicazione universale che nasceva e si propagava direttamente dall'esplosione della potente macchina economica americana.

Pei gli artisti pop la ricerca di se stessi non si basava sul rifiuto della realtà, ma diventava un mezzo per meglio offrirsi ad essa e viverla con tutte le forme secondo uno stile di vita socializzante: l'arte viene usata non in relazione all'arte in sé, ma in relazione alla vita di ogni giorno; bando quindi alla sofferenza per far posto al piacere della quotidianità, bando alle lacrime per fai posto al riso. E all’ironia.

In fondo, pei gli artisti pop, l'essere come fonte d'ispirazione artistica tende verso il benessere, a differenza dei predecessori americani dell'espressionismo e dell'action-painting.

In questo scenario Andy Warhol occupa un posto del tutto speciale.

Pur essendo stato il primo degli artisti pop a scomparire (nel 1987, mentre Lichtenstein è morto nel 1997 e gli altri sono ancora vivi e operanti), la sua arte sopravvive alla stessa epopea pop: mentre gli altri artisti sono oramai "storicizzati" e in qualche modo “sorpassati” dal vorticoso succedersi degli eventi artistici, più o meno deboli, degli ultimi decenni, l'arte di Andy Warhol è ancora oggi evidente in quasi tutte le forme di comunicazione e di espressione artistica: anche e soprattutto in quella più diffusa e massificata, la pubblicità, che pervade con il proprio sistema semantico le iconografie warholiane. Il risultato è stato ed è che l’arte di Warhol, dopo aver attinto alle "mitologie del quotidiano" per la propria espressività, nel corso degli anni ha progressivamente restituito alla cultura di massa quelle immagini di cui si era appropriata. In questo consiste uno degli esiti maggiori di Warhol, nell'aver cioè provocato una suggestione universale fatta di citazioni, scambi, parallelismi e allusioni reciproche la cui conclusione è probabilmente ancora lontana.

(dal catalogo "Essere ben essere secondo Andy Warhol" del 2000)
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Di Admin (del 20/11/2013 @ 00:00:01, in Mostre ed Eventi, linkato 1771 volte)
{autore=emblema salvatore} Grande successo per la mostra personale di Salvatore Emblema alla galleria d'arte Bosi di New York.

salvatore-emblema

Terre Vesuviane su Juta 40 x 60 cm del 2005
(collezione Marciano Arte)

Per visitare la mostra clicca il seguente link:
http://www.bosicontemporary.com/exhibits/current/transparency/3804/

Per vedere le foto del vernissage clicca il link:
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.613351315394836.1073741840.272632826133355&type=1

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Di Admin (del 18/11/2013 @ 17:45:30, in dBlog, linkato 1297 volte)
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Di Admin (del 16/10/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5084 volte)
{autore=perna vincenzo} Con questo articolo presentiamo il ciclo "Acquantico" (Il cantico dell'acqua) dell'artista Vincenzo Perna: dodici lavori eseguiti nell'ultimo periodo, figli della creatività liberamente ispirata dall'ossrevazione del mare nelle molteplici forme in cui si presenta.

vincenzo-perna-calmare
"Calmare" 70x100 cm 2012
 
"Acquantico". Il cantico dell'acqua

Canto, la bellezza di una giovane e

flebile voce di ruscello alla fonte!

Sgorgante, come liquido amniotico della madre Terra!

Canto, un sinuoso e meraviglioso crescendo in

forma libera mai ferma.

Massa trasformista,

mutante e rivoltante che sfocia e rinasce in un cascare

scrosciante!

Canto il frenetico movimento, il divino suono

di fluttuante strumento!

Poesia per l'udito, musica dall'infinito,

tra rumore e silenzio... padrona dell'immenso!

Canto un mare d'amare... tranquillo, rilassante, per un

calmare d'animo... eterno!

Rabbioso, spumante, schiumoso, invitante e

rinfrescante!

Canto te!... dissetante sorella, necessaria!

Fonte d'energia rigenerante!

Canto la forza penetrante, la pazienza perforante,

l'invadenza devastante!

Canto l'invisibile forma gentile e levigante, chiara, sincera,

trasparente, dolce e consolante.

Canto l'onda che lava l'onta,

canto te, purificante.

Canto la tua mano candida e pulente! Passante sul passato,

sui mali del mondo e su quel che... è stato è stato!

 Vincenzo Perna.       Ercolano, 7 ottobre 2013


vincenzo-perna-mattino-dopo
"Il mattino dopo" 40x70 cm 2014

ANTOLOGIA CRITICA:

Vincenzo Perna con i suoi tre decenni di operosità alle spalle dimostra un grande amore per la pittura, per il disegno, per la storia dell'arte. Ma anche per le sue radici partenopee. Nei suoi 'capricci', nelle sue 'citazioni', nei suoi 'sogni', egli porta alla ribalta un'atmosfera straordinaria anche di mare, di barche, di porti mitici.

Circola nel suo sangue il museo antico, ma anche l'antica Roma, il mare greco. In molti suoi dipinti Pulcinella la fa da padrone: è la maschera casalinga, che ogni partenopeo si porta in cuore anche nel nord italico. Come prima attrice, in molti suoi quadri, appare la sua felicea bambina che apre e che prosegue nel quotidiano la vita artistica di questo poeta di un sogno squillante di colori.

Paolo Levi

 

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"Il silenzio dei sommersi" 70x50 cm 2012

 

La maschera, la scena, il sogno.

...Una modalità di relazione dove tutto è interpretato alla luce di una scena dove il foglio e la tela diventano oggetti transizionale, schermo, tra il mondo interno dell'artista, il passato inteso come storia e quello esterno, il presente.

... Come a teatro il sipario si apre sulla "scena" e l'assurdo diventa rappresentazione di situazione visive complesse fitte di presenze di forte emblematicità dove ognuno svolge il suo ruolo, la sua parte come da copione. Un richiamo provocatorio a riconoscere, attraverso il gioco mutevole della "maschera" del Pulcinella, l'allegro visitatore, la nostra identità, la nostra storia.

...Ogni lavoro, attraverso esperienze e sperimentazioni tecniche, è trattato, patinato, invecchiato, perché secondo l'artista vittima esso stesso della natura violenta delle cose, dell'incuria e dell'abbandono, di una distruzione avvenuta essenzialmente per colpa dell'uomo, per la sua dichiarata incapacità nel gestire beni cosi importanti: Vesuvio, Scavi archeologici, chiese, ville e palazzi. Il gioco delle contraddizioni è violento nelle sue forme, nelle quali brulicano segni che sono altrettanti richiami, "stratificazioni di eventi e culture che avranno come ultimo strato i resti degli ultimi strati, di persone morte in circostanze simili a quella capitata agli ercolanesi vissuti fino al 24 agosto del '79 d. C., in attesa di essere a loro volta ri-scoperti. Unica soluzione la fuga, con qualunque mezzo di fortuna, magari in groppa a un ippocampo.

Giorgio Cangiano, 1994

 

vincenzo-perna
Senza titolo 90x70 cm 2011

 

La maschera, la scena, il sogno.

Vincenzo Perna è un artista moderno che ammanta la sua pittura dei segni del passato quasi a voler recuperare culturalmente e storicamente le orme dell'uomo, come se questi fosse ormai talmente mutato e uscito dalla sua verità esistenziale da dover essere cercato nelle sue tracce in una sorta di ricerca archeologica...

...E come un attore alla ribalta presenta al pubblico le sue maschere napoletane perché l'allegoria dei suoi pulcinella, pierrot, arlecchini sembra alludere in modo abbastanza scoperto ad una specie di giudizio finale quando i protagonisti della commedia umana gettano, appunto, la maschera e rappresentano finalmente sé stessi con tutta la tristezza del dopo scena...

...Nelle opere d'arte l'esperienza onirica ispira quanto di irreale e di irrazionale c'è nei sogni. Nell'inconscio si pensa per visioni, e poiché l'arte formula immagini è il mezzo più adatto per portare alla superficie i contenuti profondi dell'indistinto. Ma nel tratto onirico di Perna più che l'atteggiamento estremistico del surrealismo vero e proprio vi è la continua presenza del ricordo che sfocia nel problema della favola cui si concentra l'attenzione degli studiosi, etnografi e linguisti per ricercarne l'origine, la struttura, il significato, la funzione. Che, in definitiva, è il rapporto con la morale, la cultura, il costume del popolo.

Ecco il senso compiuto della sua mostra itinerante sull'ambizioso tema della maschera, la scena, il sogno.

Marino Fioramonti, 1997

 

vincenzo-perna-cielolidolindo
"Cielolidolindo" 30x107 cm 2010

 

Al Centro Civico di Lignano espone Vincenzo Perna.

Sarcasmo, ironia e un po' di amarezza sottolineano il valore di queste figure napoletane, raccontate nelle loro sfaccettature di Vincenzo Perna: il pulcinella irriverente, l'uomo triste, il saluto, il benvenuto. Tutti atteggiamenti che sottendono anche moti dell'animo, una gestualità tutta interiore per dire che sostanzialmente tutti gli uomini sono un po' delle maschere, un richiamo di contenuto per tutta la cultura (anche letteraria) del novecento, L'io che esercita la finzione, l'io che vuole mostrare un'altra immagine di sé, forse perché nell'animo di ognuno si agita la paura, o forse anche in quanto vive in ognuno di noi la volontà di sdrammatizzare il duro gioco dell'esistere, sia esso una maschera, sia una finzione. La mostra di queste figure si coniuga con una storia di carnevale perenne, l'amara finzione di gioco e sdrammatizzazione. La proprietà linguistica di Perna si estrinseca in un disegno sicuro e morbidissimo, un tratteggio elegante e fluido, senza spigolosità. L'autore, docente all'Istituto d'Arte di Udine, gioca col segno e in esso inserisce sapientemente il colore. La chiave di lettura, nel suo realismo, è estremamente semplice pur nella profonda e amara verità che solamente l'ironia può esorcizzare.

Vito Sutto, 2000

 

 vincenzo-perna-insediata
"Insediata" 100x70 cm 2011

 

Realtà, favola e sogno nelle opere di Perna

...Tale situazione viene da Perna «raccontata» nella dimensione di una favola dal sapore triste, amaro, ma con la sincera speranza di un riscatto nel prossimo futuro. Il colpevole abbandono delle ope-re di pregio storico - artistico nei luoghi a lui particolarmente cari di Pompei, Ercolano e Stabia, è sempre ricordato in oli, acrilici, tecniche miste, sanguigne, gessetti e murales, dove i primi piani sono il più delle volte occupati da maschere spesso in espressioni tristi e pensose e con le quali l'artista opera come se fosse un regista sul palcoscenico di un teatro in un sottile e ironico gioco per condannare l'atteggiamento assente nei confronti di opere appartenenti alla nostra civiltà...

...Tecnicamente l'opera mostra sempre l'accurata ricerca di calibrati ritmi compositivi, la piena padronanza del disegno ed il paziente uso di velature realizza preziosi effetti nei cromatismi ed un delicato impianto tonale, in cui bianche lumeggiature conducono a raffinati effetti luministici.

Domenico De Stefano, 1997

 

 perna-vincenzo-domani
"... A domani" 100x70 cm 2012

 

...Le opere esposte da Vincenzo Perna hanno quale scopo principale e motivo conduttore la denuncia attuale dell'incapacità di conservare il nostro patrimonio storico - artistico e, più in generale, dell'insensibilità che certe volte la società contemporanea manifesta nei confronti di quella ricchezza di valori che la cultura può trasmettere.... i primi piani sono il più delle volte occupati da maschere napoletane, Pulcinella soprattutto, individuate spesso in espressioni tristi e pensose e con le quali l'artista opera come se fosse un regista sul palcoscenico di un teatro in un sottile e ironico gioco per condannare l'atteggiamento assente nei confronti di opere appartenenti alla nostra civiltà.

Domenico De Stefano, 1997

 

 vincenzo-perna-dorato
"Dorato" 70x100 cm 2013

 

...Giovane per l'anagrafe e con il pensiero votato ad un presente che non cancelli i germi del passato, egli rivela un impegno espressivo spesso sfociante nel favolistica sempre e comunque armonizzato, allusivo e umano insieme, dove i protagonisti della scena finiscono per essere soggetti con tutte le verità e le pochezze esistenziali.

Natale Zaccuri, 1997

 

 vincenzo-perna-sabbia
"... E che non s'abbia a dire che non è sabbia!" 70x50 cm su cartoncino 2012

 

... "Frutto di una furtiva visita, con licenza di asporto" di Vincenzo Perna di Udine, completa la terna degli eletti: un excursus in una realtà cosi pregnante da superare se stessa nell'assoluta perfezione formale del cesto caravaggesco ripieno di frutti, la bambina con audacia e stupore ha carpito una mela dipinta! Grande mestiere, sostenuto da uno slancio geniale di forte impatto emotivo...

M. Pistono, 1998

 

 vincenzo-perna-sassi
Senza titolo 20x20 cm 2014

 

Il maestro udinese Vincenzo Perna va oltre i confini del reale, mettendo un tocco di ironia in «Frutto di una furtiva visita, con licenza di asporto» (3° premio).

"II furto della mela dipinta - spiega il patron della mostra - dà l'esatta misura della perfezione dell'opera caravaggesca che trae in inganno la brama concupiscente dell'incauta e stupita fanciulla".

M. Pistono, 1998

 

vincenzo-perna-mareggiata
"Molto amareggiati per la troppa mareggiata" 60x90 cm 2010

 

Una sicura identità,

... Furore e le sue remote vicende. Perna ne ha subito l'incantamento, fino a riviverle in un ciclo pittorico di forte suggestione. La narrazione (ma è poi tale, o siamo di fronte a un dato di avvio, subito superato dall'invenzione dell'artista?) procede cosi lungo percorsi emozionali, che solo parzialmente trovano riscontro con le vicende stesse...

… Gli esiti sono quelli sicuri di chi ha confidenza con la pittura di contenuto; di chi sa affrontare e distribuire un tema da piccola epopea, senza indulgere alla celebrazione e senza cedere al descrittivismo:

Perna si rivela cosi un artista con una sua precisa identità, riconducibile solo in parte alla migliore tradizione realistica. Direi piuttosto che nella sua ricerca ci sono segni di quella Nuova Figurazione, che ha trovato in Zigaina e Cremonini, ma soprattutto nel nostro De Stefano, i grandi innovatori...

...Caduta la prospettiva, intesa in senso rinascimentale, Perna dà ai suoi dipinti un impaginato di tipo cinematagrafico, dove i piani spesso interferiscono e le immagini presentano tagli insospettabili.

Anche la cromia, assai convincente, si avvale di sapienti velature e affida il meglio di sé al felice equilibrio dei toni.

Nino d’Antonio, 1996

 

vincenzo-perna-incontri
"Incontri" 70x50 cm 2010

 

Realtà e poesia.

Cercare nella realtà i risvolti persistenti, le latitudini non illusorie. Rinunciare alle dissacrazioni anarchiche e avanguardistiche. Privilegiare il rigore compositivo, la purezza del segno: ecco la voca-zione artistica, appassionata e coinvolgente, di Vincenzo Perna...

...Il linguaggio è semplice e immediato, ma il messaggio è "oltre" l'apparire e spinge verso orizzonti infiniti. Il vero di Perna è, al tempo stesso, concreto e allegorico, immerso in un'atmosfera rarefatta, quasi alienata, eppure poetica, da favola. Una pittura colta. Un'arte che individua nell'uomo il suo referente quasi esclusivo.

Raffaele Ferraioli, 1996

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Di Admin (del 17/09/2013 @ 13:00:01, in Arte News, linkato 5296 volte)


L'opera è firmata in basso a sinistra: "V. White ".

Valentino White trovava buono ogni rifugio tra le rocce dell'isola (Capri) per i suoi contatti con la più grande scuola che un artista può desiderare. Gli oli e, più ancora, gli acquerelli del nonno inglese lo innamorarono dell'arte. Una fresca spontanea intuizione della poesia dei luoghi, arricchita da una sensibilità cromatica stupefacente, veniva completando l'acutezza dell'osservazione in una tecnicità viva e personale, di largo respiro, sicura e ferma specie negli acquerelli. Nelle sue mostre romane l'attenzione della critica e dei competenti si è rivolta con particolare simpatia alla vastissima gamma del suo mondo poetico, al suo intuito felice, alle sintesi del suo paesaggio, alla vivacità degli ambienti ricchi di figure e di vita che ebbero da Siviero, in Biancale, in Girace ed in altri acutissimi critici accenti di convinti elogi.



L'opera è firmata in basso a destra: "V. White ".
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Di Admin (del 13/09/2013 @ 18:45:01, in dBlog, linkato 1670 volte)
La notizia della scomparsa di Goffredo Godi mi ha profondamente rattristato come credo abbia rattristato tutto il mondo dell'arte e soprattutto chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona. Un grande artista che ha saputo trasmettere sempre la propia gioia e sarenità nelle opere. Una tavolozza dominata da verdi inconfondibili e pennellate larghe e sicure messe sulla tela fino agli ultimi giorni. Goffredo Godi, pittore nell'animo, dipingeva esclusivamente dal vero. I modelli sono quasi sempre suoi familiari ripresi nelle frequenti scampagnate sul Vesuvio o nelle giornate estive sulla spiaggia, figure colte in pose espressive che puntualmente leggiamo nei suoi quadri; i paesaggi, invece, sono la ricerca continua del colore e della luce giusti, in una sintesi di veloci impressioni (prima che la luce naturale cambi) che ritraggono distese verdi o scorci urbani percepiti, immaginati e resi in un insieme armonico ed emozionante per lo spettatore. Ha allestito tante mostre personali nelle maggiori città italiane e ha esposto in importanti rassegne nazionali, tra le quali la Quadriennale di Roma. Ma soprattutto Goffredo Godi è stato un uomo umile, semplice, generoso. Ed è proprio l'uomo che ci mancherà, perché la sua arte ormai è eterna e vivrà per sempre.
Salvatore Marciano

goffredo-godi

Goffredo Godi "Viale alberato" olio su tela 25x35 cm del 1948 (collezione privata)
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Tra l’urlo immane e il silenzio desolato, che inesorabilmente segue, è naturale la pausa.  In quella hanno senso le evidenze riflessive che Vavuso, ribelle esasperato, comunica nella sua attuale ricerca,  proposta agli uomini umani che, nonostante tutto, progettano per il tempo della continuità con la tempera degli uomini storici che creano eventi reali. Il nostro tempo dell’incertezza, del mondo complesso e impredicibile, dell’omologazione, condanna al divenire sopravvivente l’andare verso il diritto ad un’evoluzione storica, in cui la vita abbia più vita. Lo esige la laicità che impegna ad “andare verso” nel pieno rispetto dell’etica dell’attraversamento. Vavuso denuncia l’inconciliabile dissidio tra natura e cultura, tra superpotere economico ed ignoranza generalizzata, tra miseria affamata e fanatismo irriducibile. Vincenzo Vavuso invoca l’arte che, proponendo orizzonti di auspicati, nobili processi di cambiamento, fronteggi l’ineluttabile che diventa regola e azzera le ragioni della ragione. Alla supremazia giova solo la distruzione delle preesistenze: schiaccia, brucia, massifica, vanifica l’impegno di generazioni che hanno prodotto civiltà e, quel ch’è peggio, alimenta la smemoratezza, disprezza il sentimento e domina l’omologazione. Questo è l’incubo che atterrisce l’artista, che teme gli effetti della rabbia impotente. Intanto il mistero domina incontrastato. Le più antiche domande che dall’insorgere della coscienza i primi uomini si posero, restano intatte, nonostante le prese di posizione dei creazionisti e degli evoluzionisti. Da tempi remotissimi, noi, viventi interrogativi continuiamo a chiederci chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Ignorare del tutto queste istanze è possibile: basta convincersi che non  ci riguardano. Però qualche certezza ci compensa: noi siamo quello che facciamo, quello che realizziamo con, per, e tra gli altri e non c’è definizione più bella di quella che riconosce la vita in perenne mutamento come regola e desiderio. Tutto ciò che diviene ha diritto di vivere.

Vavuso teme la sopravvivenza, la negazione della libertà di conoscere e conoscersi nel transito, nell’attraversamento etico, che è tale, perché impegna al rispetto della vita, valore unico e irrinunciabile. Vavuso non è certo il primo ad esigere una sana crescita culturale, spirituale, e di conseguenza politica, in sereno e sincero progresso. La sua stessa rabbia; il suo urlo più vano di quello di Rilke, addirittura minuscolo nei confronti di quello di Caino, che esige da Dio una ragione, una risposta, totalmente delusa alla sua eterna condanna di datore di morte. Vavuso si scontra con l’epidemico e acritico eccesso mediatico che conquista masse patologicamente confuse, arrabbiate e affamate di prede da sbranare su comando. I privilegi degli egemoni dominanti sono dogmi: i loro acerrimi nemici sono proprio il pensiero libero, la cultura, l’arte che liberamente afferma la sua decisione creativa ed è sempre al servizio degli uomini liberi. Chi si nutre di rabbia e vanamente urla contro il silenzio omologato e acquiescente sa che le città senza civiltà sono affollate di solitudini, gravate da prepotenze immotivate, da leggi distanti dalla giustizia e dall’equità. La nostra società di individui si adegua alla necessità di sopravvivenza, smemorata dalle tradizioni comuni e dei valori della propria storia. Intendo le ragioni di Vavuso, perché non oso smentire Eraclito: “Uno solo vale più di diecimila per me se è il migliore”. Com’è attuale l’articolo che Pasolini propose sul Corriere il 17 maggio 1973, ribellandosi contro l’omologazione e prendendo spunto dalla pubblicità di una marca vincente nello slogan: “ non avrai altri Jeans all’infuori di me”. Quel saggio, ora è inserito in Scritti Corsari, difendeva i sacrosanti diritti delle tradizioni destinate a perdere la propria orgogliosa autonomia. Nel tempo dell’incertezza e dell’impredicibilità anche la nostra lingua langue tra le elette dall’Europa delle Nazioni: è in gioco l’identità di una Civiltà maestra al mondo per natura ed arte. E quest’è, si dice dalle mie parti concludendo. Però, nonostante tutto la vita continua ad essere regola e desiderio ed attende il poeta e l’artista che ritrovino misteri nelle certezze inoppugnabili. A pagina 73 di quel prezioso volumetto che con il titolo di Carte Lacere venne pubblicato in edizione numerata nel 1991, a dieci anni dalla sua scomparsa, Leonardo Sinisgalli richiama la nostra attenzione ad una inoppugnabile evidenza. Ci ricorda che: “ 3 numeretti trascendenti, inesprimibili per cifre, fanno la trinità che regge il mondo: 1618…;3141…;2718…;”. Internet che ora agevola i supponenti e gli sprovveduti, abili nel copia e incolla, a farsi belli del buono e del nuovo altrui, valga per ritrovare i numeri di cui sopra e dare una sbirciatina anche alla derivazione di Google, che prende il nome da un non corretto spelling. Si incontreranno cifre d’alto interesse; 10 seguito da un milione di zeri o da un milione di milioni di zero….

E che fine è riservata ai numeri primi in questa nostra realtà dell’impostura, che provvidenzialmente ri-trova un pontefice esperto della laicità del rivoluzionario Francesco? Sinisgalli era attento “ ai numeri primi che nelle oro estreme solitudini si affiancano e forse si collegano in colonie come le stelle”.

I numeri primi del pensiero e delle arti vivono malissimo. Si ritrovano come Morgante e Margutte a verificarsi in improbabili dialoghi mentre scalano l’estrema cima della loro Himalaia per poi rendersi conto che, in vetta, il vertice si perde nei cieli che celano. In tutto questo lo scarabocchio è legato alla nostra fisiologia e la calligrafia alla nostra cultura che, se d’imposizione non è spazio che comunica. La materia grigia del mondo è però sempre in fermento e, quindi, non ci sarà mai stasi finché il pensiero lo tiene sveglio. Che dire a Vavuso che deve difendere le ragioni dell’arte? Denunci e non  si arrenda. Per ora mi tocca riflettere sull’amplesso pitagorico rappresentato da due quadrati contigui. Eppure non ho dimestichezza con Cartesio Maestro di Regine. Ho respirato il tufo delle stanze in cui Vico si spupazzava la figliolanza ed era precettore di scugnizzi. Sono certo dei ri-corsi che rendono giustizia provvidenziale agli umani valori. Siamo impegnati al tempo della continuità, la progettiamo, se perseguitati alla luce, a in sotterranei percorsi, pronti a venir fuori non appena langue la virulenza che vanifica il bene che gli uomini fanno. Non calpestiamo la natura, né bruciamo i libri del sapere. Esigiamo eventi storici qui e ora, sulla Madre terra che ci nutrì di miti reali  e praticabili nelle evoluzioni dei tempi che ce li rinnovano, in  chiarificazione. Ci piace James Mead che, reduce dalla vana ed estenuante ricerca praticata nei mari, sulla rotta per Utopia, sulla via del ritorno ha infine incontrato nell’isola di Agathotopia il luogo d’appartenenza e di continua modificazione, in cui confluiscono ciò che è stato e ciò che sarà.

Per quanto concerne la scelta delle evidenze comunicanti ad unum, è interessante sottolineare che, oltre i riferimenti metaforici, Vavuso, nella concretezza della denuncia e della diretta comunicazione con il sociale nei giorni di tutti, non mistica i materiali. Aggiunge solo il colore connotativo, relativo alle catene, alle armi da lavoro che diventano strumenti di tortura e sopruso. La crudezza dell’epifania, grazie al richiamo del legno, del ferro, della carta, che si sono evoluti in oggetti d’uso e di civiltà progressiva, diventa ancora più eloquente, perché la rabbia che grida la disumanizzazione, è forte richiamo all’incubo regressivo, che incalza proprio dove domina il silenzio acquiescente.

                                                                                                                      Angelo Calabrese


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S C A R I C A   L' I N V I T O   Q U I

BIOGRAFIA

L’interesse di Vincenzo Vavuso per le arti figurative deriva dalla dimestichezza con le opere collezionate in famiglia, alla cui acquisizione apprese ben presto a partecipare con la passione che in lui cresceva e si rilevava nei suoi primi disegni e impasti cromatici. Dalla nativa città di Caserta, completati gli studi, si trasferisce a Salerno, ove presta il servizio militare. Qui è sconvolgente l’impatto con le bellezze naturali della Costiera e con le opere dei pittori fioriti e fiorenti in una terra

benedetta dalla natura e dalla cultura. Si interessa alle ragioni dell’800 e ai fermenti del ‘900; dipinge e annota le sue impressioni e i frutti delle ricerche, che saranno poi raccolte nel volume “La pittura: l’espressione di noi stessi”, un emozionato excursus tra due secoli, in cui contano gli incontri a distanza ravvicinata con i Maestri delle arti figurative e con le loro opere, affrontate con le vibrazioni dell’impatto diretto.

Intanto dal naturalismo e dalla nuova figurazione si concretizza il transito delle scelte formali e concettuali con un impegno che coniuga esigenze estetiche e sociali, per cui, al primo volume cui si è fatto cenno, edito per i tipi di Terra del Sole, si aggiunge “Rabbia e Silenzio”, Cervino Editore, che teorizza l’omonima personale accolta nelle sale del Museo Provinciale di Salerno (2013).

 

Attività Curriculare:

Vincenzo Vavuso vive ed opera a Salerno, il suo Atelier è ubicato nella zona est di Salerno. La sua presenza sulla scena espositiva data dal 2001 e molte delle sue opere figurano in collezioni importanti sia pubbliche che private, oltre che in prestigiose gallerie d’arte. L’artista ha ottenuto riconoscimenti sia in ambito nazionale che internazionale ed è presente in vari cataloghi, enciclopedie e siti d’arte.

 

Tra le sue più significative personali vanno ricordate:

 Nel segno del colore, Galleria La Pergola Arte, Firenze;

Oltre gli schemi, Villa Bruno, San Giorgio a Cremano, Napoli,

Emotion, Galleria La Pergola Arte, Firenze;

L’infinito Oltre, SkineWine, Salerno;

Altrove lo straniero, Maiori, Salerno;

Rabbia e Silenzio, Pinacoteca Provinciale, Salerno.


Tra le sue significative collettive vanno ricordate:

Arte a Salerno, Salerno;

Giornata del Contemporaneo, Firenze;

Piè Monti, Udine;

Colorissimamente, Roma;

Avalon in Arte, Salerno;

Pennello d’oro, Dubai (Emirati Arabi).

 

È in possesso di recensioni critiche di:

Angelo Calabrese;

Luigi Crescibene;

Michele Sessa;

Daniele Menicucci;

Michael Musone;

Massimo Ricciardi;

Franco Bruno Vitolo;

Raffaella Ferrari;

Immacolata Marino.

 

S C A R I C A   L' I N V I T O   Q U I

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Di Admin (del 31/07/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 3364 volte)
{autore=dalbono edoardo}
L’elevato livello culturale dell’ambiente familiare fu determinante nella formazione del giovane Edoardo Dalbono (1841-1915), che il padre volle sempre con sé nei frequenti viaggi e negli assidui contatti col mondo dell’arte. Così, recatosi a Roma nel 1850, vi condusse il figlio che ricevette i primi insegnamenti di paesaggio dal Michetti e di figura dal Consonni.

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"Venezia" olio su cartone 28x39,5 cm

Dinanzi alla "Venezia" di Dalbono la mente e lo spirito viaggiano attraverso un percorso spazio – temporale fatto di colori ed atmosfere fuori dal tempo. Una visione tra sogno e realtà rappresentata con colori ad olio che hanno la delicatezza dell'acquerello. La sua è un’arte contemplativa che spinge all’interiorità. L'eleganza del tratto si accompagna all’estasi dello spirito di chi osserva, s’addentra nell’anima infondendo serenità.

Tornato a Napoli, continuò gli studi di disegno e di pittura. Con sempre maggior frequenza lo si vide intento a schizzare motivi di vecchie architetture e piccoli mercatini; o sulla spiaggia di Mergellina con le barche dai colori sgargianti sullo sfondo diafano di Sorrento e di Capri; o fra gli scogli del Granatello o nelle campagne o lungo la marina di Torre del Greco. Annotava con rapidi segni e parole indecifrabili gli effetti cromatici, fissando ciò che egli chiamava «l'attimo fuggente».
Mattia Limoncelli, commemorando l’artista, osservava: «Vi è un’ora in cui i ritmi si allentano: ci avvediamo che la concretezza oggettiva di Cammarano sarebbe una prepotenza, la solidità della tecnica palizziana sarebbe anch'essa inadatta: pare soltanto accettabile l'arte aerea dei vedutisti napoletani. Edoardo Dalbono si allaccia appunto a quella tradizione, la continua, con l’alleggerimento che appartiene a chi, trovando i problemi fondamentali già risoluti, ha modo di muovere liberamente i passi da quel punto ove altri fu costretto a scrivere l’ultima parola». Pertinente alle ragioni del sogno più che al mondo della realtà, Dalbono oltrepassò i confini di un'arte soggiogata da opposte tendenze, attratto dalle fate del mare nel fantasioso regno della Poesia.
Una parte non esigua della produzione dalboniana venne tuttavia alla luce solo alla morte dell’artista: moltissimi studi di paesaggio, deliziose tavolette, disegni annotati a margine, che confermano nel loro autore un osservatore amoroso, acuto e delicato del vero, e un compositore fantastico di scene popolaresche, immalinconito dalla graduale scomparsa della vecchia Napoli, che era stata il suo mondo pittorico, sopraffatto dalla civiltà.
Alfredo Schettini

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Di Admin (del 27/07/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2495 volte)
{autore=de gregorio marco}
Marco De Gregorio nato a Resina (Ercolano) nel 1829, è l'esponente più importante della Repubblica di Portici; le sue opere, disperse, forse firmate con nomi illustri, sono difficilmente reperibili. Il vigore e la singolarità della pittura del De Gregorio risiedono nella capacità dell'artista di cogliere l'armonia e l'atmosfera classica del paesaggio campano e di dare all'immagine quella forza assoluta e semplice che esclude frammenti o descrizioni del particolare.

marco-de-gregorio-resina
"Bosco di Portici" olio su tela 20x30 cm

Questa magnifica tela rappresenta la sintesi perfetta della ricerca pittorica di Marco de Gregorio e rispecchia in pieno le caratteristiche della Scuola di Resina. Il grande artista, capo carismatico di questo gruppo di pittori, ha saputo trasmettere allo spettatore la sensazione della frescura dell'ombra del bosco di Portici, solo a tratti squarciata dal sole d'estate che penetra attraverso le tante foglie degli alberi. Il paesaggio assoluto, senza intrusioni o distrazioni, è colto nella sua naturale bellezza in un affascinante gioco di luci ed ombre, primi piani e profondità, di grande qualità pittorica che ci invita ad ammirare l'opera in silenzio quasi a non rompere l'armonia e la pace di tale luogo. Il tutto in 20x30 cm....

Fu pittore essenziale, rigoroso, coerente e fuori del gusto del proprio tempo e troppo onesto perché la sua opera potesse essere accolta dai critici e dagli amatori a lui contemporanei. Nelle sue più belle opere, la sintesi luce-colore è perfetta e la purezza cromatica, e quella curiosa e inaspettata incisività del disegno, fanno davvero pensare ad un pittore quattrocentista. Cecioni lo comprese, solo che, dimenticando date e fatti, attribuì il quattrocentismo del De Gregorio all'influenza dei macchiaioli, e non comprese che quella splendore di immagini e quella intuitiva facoltà di sintesi giungevano direttamente dalla tradizionale "Scuola di Posillipo" e chiaramente da Giacinto Gigante. Se la diretta origine del De Gregorio da Filippo Palizzi appare evidente in alcune sue opere più indicative e vero pure, che la resa di una particolare atmosfera, nelle sue opere, effetti di luce e di clima non limitò mai l'artista, in senso episodico, nella visione generale del paesaggio. Egli conserva quasi sempre, i caratteri assoluti e obiettivi della realtà, proprio come nei classici. Da ciò deriva la severità e la forza di rappresentazione plastica, la rinuncia agli effetti scenografici e appariscenti, cari ai romantici, e quella essenzialità nel definire ogni elemento naturale. Nel 1869 De Gregorio si recò in Egitto, restandovi tre anni e dipingendovi quadri che danno una chiara immagine di quel paese. "Dipinse anche un sipario, su commissione del viceré d'Egitto, per il nuovo teatro del Cairo, e gli fu offerto un posto di direttore della scenografia di quello stesso teatro, ma egli preferì tornare in Italia".Il Netti, a questo proposito, così descrive la precaria situazione di De Gregorio: " La vita materiale di quel povero De Gregorio era tutt'altro che color di rosa. I negozianti d'arte, coi quali era in relazione, domandavano da lui della pittura alla quale il suo carattere e il suo ingegno non si poteva piegare. Questo era il tema preferito delle sue collere. Cercava di far delle concessioni al loro gusto, ma senza allontanarsi dalla sua via. Si sforzava di progredire, e progrediva, ma non tentò mai di piegarsi. Quindi vendeva poco e non sempre bene. Egli voleva giungere alla verità come è, alla evidenza di ciascuna cosa, all'espressione giusta degli effetti più fini e più difficili, senza transazioni, senza seduzioni, fino a distruggere la pittura. Erano dei problemi artistici ai quali aveva dedicato la sua vita, che si è consumata in ricerche, e qua e là vi sono nelle sue opere dei lampi bellissimi ... Invece in questa lotta continua, di ogni ora e di ogni momento contro le difficoltà dell'arte, contro la miseria, contro la malattia, egli ha perduto ed è stato un uomo che aveva torto".I quadri del De Gregorio non sono facilmente reperibili...... Tuttavia la produzione conosciuta non è molto più numerosa: a presentare il corpus completo della sua opera mancano, forse, ancora, in tutto sette o otto dipinti. Eppure la sua produzione dovette essere assai più ricca, dato che l'artista, secondo la testimonianza dei suoi non numerosi amici, fu un lavoratore ostinato e instancabile. Il "caso" De Gregorio" è quanto di più evidente, come una società antiquata sul piano della cultura e del costume, possa influire negativamente sulla vita e sull'attività di un artista, fino ad annientare e distruggere fisicamente la sua opera e la sua vita. Egli, come diceva Diego Martelli, " non era carne di martire ". Marco De Gregorio morì a soli 45 anni, nel 1875, dimenticato. I suoi compagni "porticesi", al contrario, partiti per Parigi avevano conosciuto il sapore della notorietà e del successo, Il De Nittis, infatti, si era già affermato come pittore alla moda e il Rossano esponeva nel 1876 al Saloon, riscuotendo l'ammirazione del pubblico e dei critici. " Marco De Gregorio - scrisse il Netti - non era un grande artista, neppure un grandissimo pittore nel senso tecnico della parola, ma la sua pittura aveva tutte le qualità dell'uomo. E l'uomo era brusco, senza reticenze, senza tolleranze, tenace in una discussione, ma di una lealtà rara, di un'onestà rigida e inalterabile, di un cuore buono, aperto e ingenuo. Dopo una violenta discussione gli si stringeva la mano e si restava amici. Il giorno appresso si faceva di lui ciò che si voleva. Anche la sua natura e così: la realtà crudamente tradotta; senza grazie, ma fedele e sincera. Prima di dire una menzogna volontaria in pittura, si sarebbe lasciato tagliare le mani".

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