Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Admin (del 26/08/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 1836 volte)



 
Di Admin (del 24/08/2011 @ 12:00:01, in Arte News, linkato 2227 volte)
{autore=pratella paolo}

Qui proponiamo due opere di Paolo Pratella:



L'opera è firmata in basso a destra: "Paolo Pratella". A tergo, firma e titolo

e:



L'opera è firmata in basso a sinistra: "Paolo Pratella". A tergo, firma e titolo

 
Nasce a Napoli nel 1892. Come Fausto segue gli insegnamenti paterni, ma si dimostra sempre più autonomo nelle scelte stilistiche rispetto al fratello maggiore. Segue un corso di pittura presso l’Istituto d’Arte di Napoli insieme a Lionello Balestrieri. Vive per molti anni a Capri. Partecipa, ma non assiduamente come Fausto, alle esposizioni nazionali e internazionali. Alla morte del padre si trasferisce a Napoli e la sua intensa attività pittorica è dimostrata dalle quindici mostre personali organizzate dalla Galleria Michelangelo. Muore a Napoli nel 1980.  (fonte: www.archiviopratella.it)
 
Di Admin (del 26/07/2011 @ 12:00:01, in Arte News, linkato 4123 volte)
{autore=schedrin sylvestre feodosievic}


L'opera è firmata in basso a destra: "Schedrin". Riporta al verso la firma incisa per esteso sul telaio "Sil'vestr Feodosievic Scedrin"

SCHEDRIN SYLVESTRE FEODOSIEVIC

Proveniente da una famiglia di artisti, il padre Feodosii fu scultore e Rettore dell'Accademia di Belle Arti di Pietroburgo, lo zio Semion fu allievo del Canova, imitatore del Vernet e pittore di camera del Granduca Paolo, frequentò, dal 1806 al 1811, l'Accademia della sua città natale. Successivamente, durante il primo decennio dell'Ottocento ebbe come maestro Feodor Alexeev pittore accademico di cultura franco-veneziana. Specializzatosi nella pittura di paesaggio, nel 1812 una sua opera vinse la grande medaglia d'oro che gli dava diritto ad una borsa di studio ed ad un soggiorno triennale in Italia. L'artista poté usufruire di questa opportunità solo nel 1818 al termine delle guerre napoleoniche.

Inizialmente si recò a Roma ove conobbe il pittore Oreste Kiprenskij, l'anno successivo fu a Napoli per eseguire due paesaggi su commissione della Casa Imperiale. Ospite del poeta Batjushkov familiarizzò con la colonia di artisti stranieri residenti a Napoli e con i pittori della nascente Scuola di Posillipo e soprattutto con il Pitloo ed il Gigante per i quali nutrì ammirazione dipingendo in loro compagnia "en plein air".

 Il suo primo soggiorno napoletano durò sino al 1821 indi fu di nuovo a Roma per stabilirsi definitivamente a Napoli nel 1825.

 Lo Schedrin è considerato uno dei propulsori della pittura romantica e verista napoletana, le sue opere, accademiche sino agli inizi degli anni venti, subirono l'influenza del Pitloo per poi evolversi ulteriormente. I paesaggi, ricercati instancabilmente a dorso di mulo per cogliere una particolare atmosfera, sono eseguiti "en plein air", con una pennellata libera e degli impasti cromatici caldi e luminosi, animati da figurine eseguite con cura nell'abbigliamento e nella gestualità. Predilesse dipingere paesaggi del lungomare napoletano, di Amalfi, di Capri e di Sorrento, variandone spesso il punto d'osservazione, l'ampiezza della veduta, la luminosità e le condizioni atmosferiche. L'Ortolani nel citarlo ne scrive:. "...non v'è dubbio che il suo naturalismo, che tendeva a sfioccare gl'impasti in una resa morbidamente luminosa, poté sul Gigante e sugli altri napoletani".

Le opere che possiamo ricordare sono: Veduta della casa del Tasso a Sorrento, Pescatori napoletani al chiaro di luna, Veduta del Vesuvio e di Castel dell'Ovo al chiaro di luna, Mergellina al chiaro di luna tutti eseguiti intorno al 1820 e custoditi presso il Museo Russo di San Pietroburgo; Veduta del Colosseo del 1822 ed al Museo di San Pietroburgo, Roma nuova. Veduta di Castel Sant'Angelo del 1823, Veduta del lago di Albano del 1824 Mergellina del 1826, Riviera di Chiaia del 1826, la serie di Terrazze a Sorrento dello stesso anno, Santa Lucia al Museo Russo di San Pietroburgo, Veduta di Mergellina e Marina Piccola a Capri del 1827, Tempio di Serapide a Pozzuoli e Castel dell'Ovo da Mergellina del 1828, Marina di Sorrento presso il Museo di San Martino a Napoli e Sulla terrazza del 1829, custodita anch'essa presso il Museo di San Pietroburgo, Piccola cala di Sorrento al Museo di Leningrado, Marina Grande di Capri e Pescatori alla riva entrambi alla Galleria Tretjakov di Mosca, Paesaggio con Torre e Meta del 1830 che sono presso il Museo di San Martino di Napoli e Casa sul mare con pescatori oggi presso la Quadreria del Palazzo Reale di Napoli. Altresì interessante è la corrispondenza mantenuta dall’artista dall’Italia.

Roberto Rinaldi - Pittori a Napoli nell'Ottocento

 
Di Admin (del 13/07/2011 @ 13:00:01, in Arte News, linkato 3101 volte)
{autore=cooper thomas sidney}


L'opera è firmata in basso a destra: "T. S. Cooper". Riporta al verso la firma per esteso "Thomas Sidney Cooper" con la data non chiaramente leggibile e i resti di un cartiglio dell'epoca di Worth & Co.  Con cornice coeva.

THOMAS SIDNEY COOPER (Canterbury, 1803 - 1902).
Sin da giovanissimo lavora in una bottega di scenografie teatrali. Il suo tempo libero lo dedica interamente alla pittura dal vero. Nel 1824 viene ammesso alla Royal Academy Schools di Londra.
Dal 1827 al 1830 si trasferisce a Bruxelles. Qui si sposa ed inizia la collaborazione artistica col pittore olandese Eugene Verboeckhoven specializzato in dipinti di animali.
Nel 1833 ritorna a Londra, espone alla Royal Academy e ottiene un grande successo. Diventa socio della Royal Academy nel 1845 e Royal Accademico nel 1867. La Regina Vittoria e il Principe Alberto, lo incaricano di immortalare le loro mandrie di mucche di razza Jersey.
Per tutta la sua carriera ha dipinto, con grande maestria, immagini di animali e in special modo di ovini, tanto da essere noto anche come "Cows Cooper" (Mucche Cooper).
Tra il 1848 e il 1856 Cooper ha collaborato con il pittore paesaggista Frederick Richard Lee nella creazione di alcuni dipinti: Lee dipingeva i paesaggi e Cooper completava la scena dipingendo gli animali.
Nel 1882 fonda la Canterbury Sidney Cooper School of Art, ora chiamata Università degli Studi di Arti Creative. Il pittore detiene il record per le esposizioni di 266 quadri alla Royal Academy dal 1833 al 1902, anno della sua morte, senza mancare un anno.
Sue opere sono tra gli altri alla Tate Gallery e al Victoria and Albert Museum di Londra.
 
Di Admin (del 27/05/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 1859 volte)
{autore=anonimo}

155 x 220 cm

Dipinto ad olio su tela di scuola napoletana del secolo XVII. Foderato e restaurato. Opera di ottima fattura raffigurante l'estasi della Madonna, illuminata dallo Spirito Santo, nel momento in cui l'Arcangelo Gabriele Le annuncia che diventerà la Madre di Gesù, Dio in terra.
Molto probabilmente il dipinto, eseguito su commissione per una casa o cappella privata, è stato eseguito da due artisti napoletani (presumibilmente della bottega del Vaccaro), che dividono la tela verticalmente in due.
Nella parte destra la Vergine Maria è colta nel momento di preghiera, sull'inginocchiatoio e con il libro di preghiere aperto, mentre un raggio di luce parte dalla Colomba, accompagnata da due cherubini, per illuminare la Madonna. In basso a destra è scritto: "Giacomo Peradoto fece far per sua divuzione".
La parte sinistra è dominata dalla figura dell'Arcangelo Gabriele, nell'istante in cui annuncia alla Vergine la volontà del Signore. L'Arcangelo alato mostra nella mano destra il giglio (simbolo di castità e purezza) che donerà alla Madonna e con la sinistra indica il numero tre simbolo di Dio. Bellissimo il panneggio. In basso a sinistra si legge: "L'isteso Peradoto fece far".
 
Di Admin (del 20/05/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 1810 volte)
{autore=delaval pierre louis}


L'opera è firmata e datata in nero dal basso verso l'alto sul lato sinistro del dipinto: "P.L. Delaval 1817".

Pierre Louis DeLaval nacque a Parigi nel 1790 e morì a Versailles nel 1881. Fu artista pluridecorato, allievo di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson (Montargis, 1767 – Parigi, 1824). Ha lavorato col suo maestro su molti progetti, tra cui i cicli de "La Forza" e "La Giustizia". Dopo essere stato esonerato dal servizio militare per decreto imperiale per la sua opera artistica su Napoleone, continuò a dipingere soggetti storici, mitologici e ritratti. Diventò uno dei ritrattisti più importanti e ricercati d’Europa. Le sue opere sono in musei, cattedrali, chiese, palazzi, tra cui Versailles, e gallerie pubbliche e private.
 
Di Admin (del 17/05/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2765 volte)
{autore=cortiello mario}


L'opera è firmata in basso a destra: "Mario Cortiello".

Pittore a ponte fra le spinte di rinnovamento e i richiami della tradizione, Mario Cortiello ha provato a conciliare queste opposte tensioni, riuscendo spesso a risolverle felicemente. Dotato di fertile invenzione e di notevole capacità rappresentativa, ha lasciato una produzione ricca e varia. “Tra appunti cromatici e narrazioni fantastiche Mario Cortiello raggiunge un surrealismo chagalliano che spesso va al di là di ogni pittorica immaginazione per approdare a quelle favole mediterranee, a quel mondo già nostro vissuto tra mito e leggenda”. (Salvatore Di Bartolomeo)
 
Di Admin (del 18/04/2011 @ 13:00:00, in Arte News, linkato 2381 volte)
{autore=tafuri lucio}


L'opera è firmata e datata in basso a sinistra: "Lucio Tafuri 1972".

LUCIO TAFURI.
Da "Il Secolo XIX":  "...come una ventata di aria fresca, fa palpitare la tela dando alla figura, con naturale lirismo, l'analisi estetica che solo l'artista autentico sa discernere." 
"Oggi Tafuri si propone a noi con opere che dimostrano la scioltezza pittorica del suo operare: artista completo, ma soprattutto notevole ritrattista, i suoi lavori sono commissionati da istituzioni di rilievo e importanti famiglie."
 
Di Admin (del 06/04/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5604 volte)
{autore=de stefano armando}


L'opera è firmata e datata in basso a destra: "A. De Stefano 1976". A tergo sono: titolo, data, firma, tecnica e un numero di archivio apposti dall'autore: ""Il fauno '76", A. De Stefano, tempera, 5138". Il dipinto è corredato dall'autentica diretta dell'artista su foto (del fronte e del retro) in bianco e nero, dove il maestro specifica che, tra l'altro, la tecnica usata è quella dell'olio.

DE STEFANO, DENTRO LA VITA LA SOLITUDINE DEL LEONE.
Domenico Rea scrisse che Armando De Stefano ha "la capacità di scendere nel cuore delle cose e di riportarle in luce, in colore, senza rinunciare a nulla di napoletano". Pittore di confine, alla soglia degli ottant’anni De Stefano ha appena pubblicato un bel libro antologico, Continuità nel realismo, a cura di Arturo Fratta. E già quel titolo è una rivendicazione di resistenza alle mazze e piveze - così lui le definisce - che oggi invadono gli spazi dell’arte. «Sono nato al Borgo Orefici. Papà Luigi era cassiere di banca, mamma Assunta curava la casa e cuciva i vestiti per noi tre figli, io il terzo. Fu lei a chiamarmi Armando come l’Armand Duval dell’amata Signora delle camelie. Bella la vita in quel quartiere popolare. In piazza Mercato fittavavamo le biciclette, sorbivamo le rattate di ghiaccio tritato e colorato di sciroppo, ascoltavamo le anziane narrare le leggende della rivoluzione del 1799. Per loro Eleonora Fonseca Pimentel era una malafemmena». Quando cominciò a dipingere? «Alle elementari. Non ho mai fatto i disegni dei bambini, e mi dispiace. La matita nella destra, ritraevo la mano sinistra aperta e viceversa. Mio zio Francesco Parente, scultore, m’incoraggiava, ma papà non voleva, ne aveva visti troppi di artisti in miseria, nella sua banca. Però fu lui a far crescere la mia voglia. Mi parlava di Gemito, perché andava a casa sua ogni tanto a portargli un assegno di Mussolini. Gemito faceva il the, non glielo offriva, prendeva una carta gialla, di quelle usate per il sapone, e disegnava un cavallo, un pesce, un cervello. "Portatelo all’eccellenza", era il suo modo di disobbligarsi. Arrivato in quarta il direttore decise di usare la mia abilità. Invece di studiare, disegnavo a tempo pieno. Ritratti del generale Diaz, della regina che offre l’oro alla patria. All’esame di ammissione temevo di essere bocciato, ma mi aiutarono». Fece subito studi artistici? «No, m’iscrissero al magistrale Margherita di Savoia. Di pomeriggio si tenevano corsi di pianoforte e violino, così m’innamorai anche della musica. Ma non si possono fare tante cose insieme. Ho nutrito quasi un senso di colpa per aver lasciato la musica; per attenuarlo ho sempre tenuto un piano a coda nello studio e ho donato disegni di strumenti al conservatorio, quando lo dirigeva Roberto De Simone». Che ricordo ha della guerra? «Fame e paura. All’inizio era quasi divertente scendere nei ricoveri, vedevi le ragazze in abbigliamento più intimo. Ma poi uscivi, vedevi le case distrutte, e montava l’angoscia. Tornata la pace, passai al liceo artistico". E fece i primi quadri veri. «Ritraevano certi uccelli, soprattutto anatre. Usando lo specchio dell’armadio della padrona di casa feci il primo autoritratto, lo conservo. L’arrivo degli Alleati fu un vantaggio anche personale. Mio padre era amico di un certo Ciappa, copista della Tate Gallery di Londra, che mi consigliò di fare i ritratti agli ufficiali americani e inglesi. Andavo alle batterie contraeree munito di una tavoletta e di un blocco di carta. Ogni disegno, tre AM lire. Ne esposi uno, come pubblicità, nella libreria Lepre in via Costantinopoli. Funzionò, facevo fino a tredici ritratti al giorno. Fu una grande lezione e campammo tutti un po’ meglio. Ma poi Napoli si spopolò e addio affari». Suo padre comunque aveva cambiato idea. «Macché. In famiglia erano tutti ragionieri, gente quieta. Dopo la maturità mi disse: iscriviti almeno ad architettura, pure quella è un’arte. Resistetti un anno. Gli dissi: non ti preoccupare, me la vedo io. Magari andrò a Parigi o a Londra, e se va male laverò i piatti. All’Accademia feci l’incontro meraviglioso con Emilio Notte: grande pittore, grande didatta. Disse: "Ricordati che i leoni camminano da soli", questa frase mi ha accompagnato per tutta la vita, la lezione morale di Notte mi ha guidato in 42 anni di insegnamento. Al terzo anno di Accademia vinsi il Premio De Gasperi a Roma ed esposi alla Biennale di Venezia, dipinti di figure allungate. Grazie a una mostra al Grenoble conobbi Picasso, Braque, Matisse. Fu uno choc. Presi a fare cose discontinue, a cercare una mia strada». Erano anni di ricostruzione e di speranza. «Nel 1946 m’iscrissi al partito comunista. Papà era di sinistra, ma subii soprattutto l’influenza ideologica del pittore Raffaele Lippi, reduce dalla Russia. Dal 1950 tenni rapporti con i compagni di Roma, a partire da Renato Guttuso. Sperimentai un linguaggio di grande ricchezza, frequentai camere del lavoro e case del popolo, contadini calabresi e lavoratori delle risaie. Facevamo murales, grandi pannelli per le feste dell’Unità. E se prima non avevo il coraggio di dire una parola, imparai a parlare in pubblico. Mi sentivo un pittore con una funzione, oggi mi sento un isolato. Feci una mostra in America con il gruppo realista. Nel ‘54 fui premiato al Festival della Gioventù a Mosca, ero un ‘pittore del popolo’; presentai un nudo, quello della ragazza che vendeva sigarette sotto casa». Quanto durò quel periodo? «Il XX congresso del Pcus fu lo spartiacque. Il partito girò le spalle al realismo, convogliò intellettuali di pareri ben diversi. Guttuso si girò verso gli americani, la pop art. Fu un aborto. E venne una prima rottura tra noi artisti. Dopo l’invasione dell’Ungheria non rinnovai la tessera. C’era anche una crisi di linguaggio, un nuovo tipo di operaismo nell’arte ci esponeva al rischio di una iconografia di tipo fascista. L’apologia non ha niente a che fare con la realtà, ch’è complicata. Alla fine degli anni Cinquanta, alla Biennale di Venezia, entrai in contatto con un pittore che aveva capito le contraddizioni della realtà: Francis Bacon. Fu un arricchimento. Gli operai oramai volevano diventare borghesi. Per cogliere opposte sfumature occorrevano immagini meno ieratiche, perfino più ambigue». Ciò nonostante, lei seguì la continuità nel realismo. «Ma con strumenti diversi, ispirandomi al cinema e alla storia, quella valida per l’oggi. Cominciai con Masaniello, una grande mostra a Roma e poi a Firenze. Mi aveva colpito un libro di Vittorio G. Rossi, Miserere per i fichi; narrava di un rappresentante di detersivi che si trova nelle strade napoletane del ‘600. Misi un microfono in bocca a Masaniello, lo trasformai in tribuno di piazza. Come colonna sonora presi i canti popolari raccolti da De Simone. Fui affascinato da altre figure di uomini inghiottiti dalla rivoluzione, come Marat, come Lumunba. E le dipinsi». Poi venne il ciclo di Odette e il Jolly. «Fu presentato da Giovanni Testori, geniale amico. La mostra andò a Londra e in Spagna. Per me Odette era la Francesca Bertini dei film muti visti da bambino, una suffragetta a cavallo di due secoli che si innamora di un anarchico. In fondo, un romanzo a fumetti riscattato dalla presenza di un jolly che, come nelle carte, risolve i problemi, nel bene e nel male. Seguirono le Maschere, cui ho dato un senso diverso: utili non a mimetizzarsi bensì a essere se stessi, disinibirsi». E’ ricorrente l’uso di certi simboli rovesciati. «Forse. Ad esempio il ciclo del Mercato dei Miti. Dopo la guerra si vedevano sulle nostre bancarelle fez e pugnali fascisti; sulle bancarelle dell’Est cappelli e distintivi dell’Armata Rossa. Smitizzati. Ciò che fa paura può diventare oggetto di scambio da pochi soldi. E per Dafne stranamente m’ispirai a D’Annunzio più che a Ovidio. Fu un grido di critica sociale: pensavo al trasformismo, alla vergogna della gente che passa da un partito all’altro». Una vena libertaria, di sostegno agli sfavoriti percorre tutto il suo lavoro. «Feci gli Esclusi, l’idea mi venne da un magnifico libro di Sergio Piro con le foto di Luciano D’Alessandro. Ma gli esclusi non sono solo i pazzi, escluso è chiunque è tenuto in disparte perché non accetta le speculazioni. Li presentai a Napoli, a Palazzo Reale". E venne il ciclo del 1799. «Cominciai negli anni ‘70 con ritratti di Championnet, Nelson, Cirillo. M’ispirarono i racconti delle vecchiette di piazza Mercato. Feci una mostra a Palazzo Reale nel 1989, ho ripreso il tema per il bicentenario. Ho molte tele sulla rivoluzione napoletana, la decapitazione di Eleonora, i Francesi... Non le vendo, voglio donarle al comune di Napoli. Ne parlai con Guido D’Agostino quando era assessore, disse che voleva sistemarle in un museo da aprire in una chiesa del Mercato. Non ebbe il tempo. Ne ho parlato con la Furfaro, dice che quel progetto non esiste. Magari ne parlerò con Spinosa, il Museo di San Martino sarebbe la sistemazione adatta. Spinosa ha voluto due miei dipinti a Capodimonte, due spaventapasseri. E non ho rinunciato a salvare la statua di gesso di Jerace sul 1799. Gerardo Marotta la ripescò per esporla a Sant’Elmo, è finita nel cortile di Palazzo San Giacomo. Era passata la mia tesi di tradurla in bronzo, bastavano 50 milioni. Invece sta lì e può andare in pezzi al primo urto. E però nelle vie ci sono i tralicci di Kounellis». Non la convince, è noto, la politica napoletana dell’arte. «Ho l’impressione che Napoli abbia vissuto una sindrome delle avanguardie, eccessiva, correndo il rischio di cadere nel provincialismo della smania del nuovo. Diceva Carrà: ‘Di cose nuove è pieno il mondo, cioè diventano vecchie’. Non c’è cosa più vecchia e stantia di un’avanguardia superata. Non sono contro l’avanguardia in sé, vorrei solo una dialettica fra le varie tendenze. Se l’avanguardia diventa cultura di Stato, che avanguardia è? Diventa un termine militaresco, come eia eia alalà. Diceva Testori: ‘Non bisogna mai confondere avanguardia e modernità’, ossia tutto ciò che accade attorno a noi, filtrato senza civetteria, senza mode. Io sono un pittore moderno, non di avanguardia. Il Pan, il Madre, le opere in piazza Plebiscito: va tutto bene, però non si può portare una certa esterofilia all’esasperazione. E non parlo di napoletanità, e non lo dico perché non c’è un quadro mio sotto il metrò. Lo dico perché così si distrugge la cultura mediterranea, quella di Picasso per capirci. Non basta portare il mondo a Napoli, dobbiamo portare Napoli in tutto il mondo». Dica qualcosa che l’è piaciuto di recente. «All’ultima Biennale di Venezia ho incontrato il pittore Freud, nipote dello psicanalista. Bravissimo, trasgressivo, ambiguo. Nel mondo esistono fenomeni veri, perché mortificarli? Sto lavorando anch’io sulle trasformazioni dell’ambiguità. Ho avuto il ‘600, Cammarano, Gemito, i miei vecchi. Ho scelto questo mestiere perché amavo i pennelli, i colori, la tela, la puzza dell’acqua ragia, il corpo umano. Ma le passioni antiche, gli strumenti eterni dell’arte, devono sempre servire alla modernità». PIETRO GARGANO (da “Il Mattino” del 6 novembre 2005)
 
Di Admin (del 30/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2461 volte)
{autore=sannino ettore}


L'opera riporta firma e data in basso a sinistra: "E. Sannino - 1952" e sul retro della tavola c'è il cartiglio dell'autore col titolo: "Meriggio in giardino. Ettore Sannino - Portici".

ETTORE SANNINO (Portici, 1897 - 1975)
Dopo gli anni di guerra aveva potuto tardivamente iscriversi all’Accademia di Belle Arti, dove si sarebbe formato come scultore nel solco del magistero di artisti quali Achille D’Orsi e Luigi De Luca, conseguendovi il diploma nel 1922 e iniziando una intensa attività come scultore in marmo e bronzista, che si protrarrà con successo per venti anni. Nei mesi convulsi che portarono al tragico epilogo l’avventura bellica voluta dal fascismo, Sannino prenderà in mano pennelli, colori ad olio e tele dando il suo addio definitivo alla scultura. E alla pittura resterà fedele per il trentennio successivo. Al suo esordio come pittore, un sicuro punto di riferimento per lui fu certamente il magistero dell’amico Luigi Crisconio, che proprio a Portici aveva dedicato alcune tele di particolare suggestione. Che un artista attivo nel campo della statuaria passasse all’attività pittorica non era di per sé un evento raro. A rendere, tuttavia, peculiare e alquanto insolita la scelta compiuta da Ettore Sannino è il fatto che l’abbandono della scultura e la complementare passaggio alla pittura risulteranno nel suo caso scelte definitive e irreversibili. La pittura aveva enormi vantaggi, in particolar modo per la relativa “facilità” tecnica e per la “leggerezza” e duttilità espressiva, oltre che per l’economicità di tempi e costi realizzativi.
 
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