Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Admin (del 14/11/2010 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2372 volte)
{autore=villani gennaro}
Marciano Arte presenta la decima opera inedita del maestro del Novecento napoletano Gennaro Villani (4 ottobre 1885 - 25 dicembre 1948).

E' un olio su cartoncino di 10x15 cm "Caprette":



L'opera è firmata in basso a destra "Villani".
 Riporta a tergo l'autentica firmata dalla figlia del maestro Ena Villani.
 Il supporto è un cartoncino di invito ad una mostra personale dell'artista Gennaro Villani alla Galleria Ciardiello di via Calabritto a Napoli che si è svolta dal 2 al 12 marzo 1925.

VILLANI GENNARO (Napoli, 1885 – 1948) Si forma all’Accademia di Belle Arti di Napoli dal 1900 al 1907 come allievo di Michele Cammarano ereditando la tradizione degli impasti e della composizione del suo maestro che aveva fondato la ricerca del "vero"su contrasti chiaroscurali e prime prove di concorso per il Pensionato Artistico Nazionale risentono ancora di questa matrice ottocentesca. Una svolta avviene quando aderisce al Comitato Nazionale Artistico Giovanile, solidarizzando col gruppo della Secessione dei 23. L'opera cardine all’esposizione del 1909 è La “Barca Rossa”, replicata più volte in diverse tecniche, a pastello e a olio, che inaugura una fortunata stagione figurativa modellata su una nuova ricerca cromatica del paesaggio, ricca di tinte chiare e luminose. Il primo viaggio a Parigi arriva nel 1909, con gli amici Raffaele Ragione e Louis Reggiori, cui seguiranno tappe nel 1912, nel 1914 nel 1915. Risale a questa fase la brillante visione notturna della capitale in “Moulin Rouge” (900. Un museo in progress. Napoli Castel Sant’Elmo) ispirata a modelli del tardo-impressionismo. L’eco del successo con le sue partecipazioni alle Esposizioni di Monaco di Baviera (1909), di Venezia (1910) e di Bruxelles (1919) rimbalza negli acquisti favoriti alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma (“Pascolo”) e all'Accademia di Belle Arti di Napoli (1917). “Sinfonia azzurra” (già al Museo di Capodimonte) fu acquistato nel 1935 dal Ministero dell'Educazione Nazionale. Tra il 1922 e il 1925 Villani si trasferisce a Lucca dove insegna Pittura e decorazione all'Istituto di Belle Arti dopo la morte di Alceste Campriani. Nel 1930 e nel 1933 due importanti mostre sono organizzate a Napoli, a cura del Circolo Artistico Politecnico di Piazza Trieste e Trento dove l'artista è socio e realizza anche una sovrapporta (“Navi nel porto”) che ricorda il progetto dei tre pannelli decorativi presentati al concorso della Stazione Marittima di Napoli, nel 1932. In questo stesso anno sposa Elisa Miele dalla quale avrà una figlia, Ena. Gli anni del fascismo accentuano la sua inquietudine non essere riuscito ad ottenere incarichi all'Istituto di Belle Arti. Achille Macchia, nel 1930, lo definisce rappresentante instancabile del paesaggio mediterraneo, egli ha un occhio vigile al passato, ma è moderno rispetto alla tradizione ottocentesca. Luisa Martorelli

 
Di Admin (del 31/01/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 7098 volte)
{autore=de sanctis giuseppe}


GIUSEPPE DE SANCTIS (Napoli, 1858 - 1924)
"GIOVANE DONNA"
OLIO SU TAVOLA
35 x 20 cm

L'opera è firmata e dedicata allo scultore Luigi de Luca (Napoli, 1857 - 1938), in basso a sinistra: "all'amico de Luca   G. de Sanctis"

GIUSEPPE DE SANCTIS
Napoli, 1858 - 1924
Suo padre Cesare, amico ed ammiratore di Giuseppe Verdi lo volle chiamare Giuseppe in onore del grande musicista da cui fu tenuto a battesimo. Fu incoraggiato ad intraprendere la carriera artistica dal padre che lo presentò al Morelli, iscrittosi all'Istituto di Belle Arti di Napoli fu allievo dello stesso Morelli, del Palizzi, del Ruo e di Gioachino Toma. I suoi primi saggi di scuola, una testa dal vero ed un nudo meritarono dei premi, nel 1879 vinse un concorso governativo e nell'80 ebbe una menzione onorevole. Le sue prime due opere risentono dell'influsso morelliano ispirate a personaggi di storia bizantina: Teodora presentata nell'87 all'Esposizione Nazionale di Venezia e La preghiera della sera a Bisanzio che presentata per la prima volta a Monaco e successivamente a Parigi ed a Palermo gli valse la medaglia d'argento e fu acquistata dal re Umberto I. Il De Sanctis fu a Londra a Parigi ove vi si trattenne sino al 1890. In questa città fu allievo del Gèrome e del Bouveret e dipinse per la Casa Goupil. La sua pittura risentì di queste esperienze, divenne più delicata ed elegante passando dal genere storico al paesaggio, al quadro di composizione ed al ritratto. Rientrato in Italia collaborò alla decorazione del Caffè Gambrinus con Donna fra le ortensie attualmente presso la Pinacoteca di Capodimonte, partecipò alle Promotrici napoletane dal 1882 al 1917 esponendo, tra l'altro: Mercato dei fiori a Bruxelles nel 1885; Place Blance nel 1887; Testa femminile nel 1896 e La Marna e bagnanti nel 1916. Abile incisore eseguì copie da dipinti del Morelli e riprodusse la Breccia di Porta Pia del Cammarano. Nel 1897, a Londra con il Caprile ed il pittore inglese Haitè eseguì un grosso dipinto intitolato Il giubileo della regina Vittoria, attualmente nelle Gallerie di Melbourne in Australia. Nel 1911 in occasione della Esposizione Internazionale di Roma con il Volpe ed il Vetri decorò la volta del salone centrale del padiglione della Campania, Basilicata e Calabria. Il De Sanctis è stato membro onorario dell'Arts Club di Londra, Professore onorario delle Accademie di Belle Arti di Napoli ed Urbino ed insegnante di incisione ed acquaforte presso il Reale Istituto di Belle Arti di Napoli.
(da Pittori a Napoli nell’Ottocento. Di Roberto Rinaldi)
 
Di Admin (del 07/02/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5437 volte)
{autore=parlato giovanni}


GIOVANNI PARLATO (Vico Equense, 1957)
"NATURA MORTA"
OLIO SU TAVOLA
50 x 70 cm
e...


GIOVANNI PARLATO (Vico Equense, 1957)
"NATURA MORTA"
OLIO SU TAVOLA
50 x 70 cm

Entrambe le opere sono firmate Parlato G., rispettivamente in basso a sinistra e in basso a destra. Sul retro delle tavole è apposto il cartiglio con timbro e firma dell'autore.

GIOVANNI PARLATO

Si è diplomato all'Istituto d'Arte di Sorrento e ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Napoli. Sin da giovanissimo ha esposto in numerosissime mostre collettive e personali. E' uno degli artisti napoletani più apprezzati dalla critica; anche Vittorio Sgarbi ha scritto di lui.

Sua caratteristica peculiare è la profonda conoscenza dell'uso del colore, un colore vivo, pulito, vero. Il suo talento di disegnatore raffinato ne fa un ritrattista apprezzato e ricercato da collezionisti e da gallerie italiane ed estere. Suoi soggetti sono le figure e le nature morte, sempre caratterizzate da quella luce e quel colore tipici della propria terra. E' citato in molte pubblicazioni d'arte. Sue opere si trovano presso Enti pubblici e collezioni internazionali.

 
{autore=striccoli carlo}


CARLO STRICCOLI (Altamura, 1897 - Arezzo, 1980)
"NATURA MORTA"
OLIO SU TAVOLA
30 x 43 cm

L'opera è firmata in basso, sia a destra che a sinistra: "Striccoli". Sul retro della tavola ci sono tre cartigli: uno con timbro della galleria svizzera Kunsthalle Bern; un secondo frammentario è appartenente ad altra galleria italiana; infine un altro riporta titolo, prezzo, firma e indirizzo apposti dall'artista: "Natura morta 45.000 Carlo Striccoli Cimarosa 37 Vomero".

Si rende noto a Collezionisti e Galleristi che è in preparazione la prima monografia di Carlo Striccoli, a cura di Mariadelaide Cuozzo, docente di arte contemporanea dell’Università della Basilicata e Anna Lucia Cagnazzi coordinatrice dell’archivio Striccoli. Edizioni Paparo. Coloro che volessero pubblicare le proprie opere possono far pervenire richiesta entro il 25 marzo 2011 ad annacagnazzi@gmail.com o a lamediterraneaarte@virgilio.it 

CARLO STRICCOLI
Un altro pugliese, di Altamura, Carlo Striccoli, si affermò come uno dei principali promotori della corrente novecentista napoletana. Egli partiva dall’insegnamento cammaraniano ricevuto all’accademia, un insegnamento che aveva reso più evidente una sua pittura che lo avvicinò, per qualche tempo a Crisconio, di cui tentò di comprendere le ragioni del fascino, e l’evidente significato di avanzamento rispetto a una certa pittura, che conservava intatta la nobiltà di una tradizione illustre. Striccoli aderì più tardi al movimento novecentista, e ancora nel 1930 egli esponeva dipinti ispirati ad una vigorosa e puntuale resa del vero, nel senso del naturalismo cammaraniano. Successivamente, e non si è mai capito perché, Striccoli sbandò, si perdette nella imitazione quasi letterale di un Carena, di un Salietti e dei pittori più stanchi e prevedibili della moda novecentista. Per ritrovare il filo della sua pittura, dovette passare molto tempo, fin quasi agli anni ‘40, quando ritrovò gli agganci con quelli che erano stati i suoi reali maestri: oltre Cammarano, Villani, Mancini e Crisconio. Sostenuta da una autentica forza nativa, la pittura di Carlo Striccoli riuscì subito dopo ad affermarsi come quella di un artista di sicuro talento, anche se i suoi limiti rimanevano quelli dell’incapacità a condurre conseguentemente una sua esperienza positiva nel senso realistico. La breve esperienza novecentista era ancora da superare, e per superarla erano necessari una coscienza culturale e un senso critico che Striccoli non ebbe mai a sufficienza, per cui gli mancò la capacità di mettere a frutto, con audacia, tutte le qualità native di cui non aveva esatta consapevolezza. Il pittore doveva andare oltre la pura espressività istintiva. Cosa sarebbe stata la pittura di Striccoli, se fosse riuscito a mettere a frutto certe sue scoperte cromatiche, quei grigi argentei presenti in ceni quadri, specie nei nudi e nei volti femminili, o nei paesaggi, visti in una maniera che rivela efficacemente l’atmosfera dell’ora o delle stagioni? Negli ultimi tempi la sua pittura si avvicinò ad una sorta di espressionismo automatico, e in questo senso egli compi passi notevoli nel definire il suo mondo. Nuovi contenuti urgono allo spirito di un artista della sua natura e i generi non soddisfano più; ciò si avverte dal modo furibondo col quale Striccoli tenta di risolvere e di chiudere un paesaggio o un quadro di figure, adoperando una tecnica abbreviativa, come di chi è preso dall’orrore di cadere nel non piacevole gioco del «color locale». Striccoli tuttavia resta tra i più dotati pittori meridionali, anche se il cammino accidentato da lui percorso è esemplare di una condizione umana di sbandamento e di crisi dell’arte verificatasi dopo il 1950 e di cui egli è stato una delle vittime.
(Paolo Ricci, da “Arte e artisti a Napoli”)
 
Di Admin (del 03/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 1675 volte)


CORNELIS KRUSEMAN (Amsterdam, 1797 - Lisse, 1857)
"IL COMPIANTO DI CRISTO"
OLIO SU TELA
63 x 54 cm del 1836

L'opera è firmata e datata in rosso in basso a destra: "C. Kruseman 1836".
E' noto un bozzetto dell'opera, pubblicato sul sito della Fondazione Kruseman.

Cornelis Kruseman (Amsterdam, 25 settembre 1797 - Lisse, 14 novembre 1857) è stato un pittore olandese, figlio di Alessandro Hendrik Kruseman (1765-1829) e Cornelia Bötger (1762-1831).  Nel 1821 si reca in Svizzera e in Italia per poi soggiornare a Parigi. Nel 1825, dopo il suo ritorno nei Paesi Bassi, si stabilisce a L'Aia. Il 3 ottobre 1832 sposa Enrichetta Angelique Meijer. Nel 1841 parte nuovamente per l'Italia, dove rimane per sei anni. Per questo viene anche chiamato "Kruseman l'italiano". Dal 1847 al 1854 vive a L'Aia, e dopo a Lisse fino alla sua morte. Dall'età di quattordici anni Cornelis Kruseman frequenta l'Accademia di Amsterdam e riceve lezioni da Charles Howard Hodges (1764-1837), Pietro Antonio Ravelli (1788-1861) e Jean Augustin Daiwaille (1786-1850). La sua opera è costituita da ritratti, soggetti biblici e scene di genere italiane. Nel 1826 ha pubblicato un resoconto del suo viaggio in Italia. Egli è stato onorato per il suo lavoro in diversi modi. Nel 1831 viene nominato Cavaliere dell'Ordine del Leone d'Olanda e nel 1847 come Comandante dell'Ordine della Quercia di Corona e nel 1841 una sua opera viene acquistata dal Re di Olanda e Granduca di Lussenburgo, Willem II. A lui sono state intitolate strade cittadine ad Amsterdam, Eindhoven, Ede e Leeuwarden. Tra i suoi allievi: Jan Adam Kruseman (1804-1862) e Herman Frederik Carel ten Kate (1822-1891). Nel 1996 nasce la Fondazione Kruseman. L'obiettivo della fondazione è quello di ottenere maggiore riconoscimento per l'opera di Cornelis Kruseman e dei suoi familiari pittura.
 
Di Admin (del 09/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2809 volte)
{autore=anonimo}

Olio su tela della Scuola napoletana del sec. XVIII raffigurante la Madonna delle Grazie. Misura 55 x 45 cm. L'opera è stata rifoderata e restaurata.
 
Di Admin (del 14/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 4226 volte)
{autore=capaldo rubens}

RUBENS CAPALDO (Parigi, 1908 - Napoli, 1997)
"NUDO"
OLIO SU TELA
69 x 40 cm del 1967




RUBENS CAPALDO (Parigi, 1908 - Napoli, 1997)
"FIGURA"
CARBONCINO SU CARTA
96 x 50 cm del 1973

 Entrambe le opere sono firmate e datate in basso a destra.


Rubens Capaldo "alle origini della forma" di Paolo La Motta

 Osservando il panorama della pittura napoletana della prima metà del Novecento, e più precisamente analizzando l’opera dei pittori come Crisconio, Chiancone, Striccoli, Brancaccio, Casciaro, è evidente, nella formazione di tutti questi autori, la matrice novecentista che, nel periodo in cui hanno operato, accomunava pittori di tutta Europa ed oltre, secondo il rapelle al ordre di Waldemar George e i “Valori plastici” di Mario Broglio.

Ma osservando l’opera di Rubens Capaldo, che appartiene ad una generazione successiva ai pittori sopra citati, Guido Casciaro escluso, notiamo subito, nella prima fase giovanile, un forte debito nei confronti di Crisconio, pittore molto amato da Capaldo. Mentre non rileviamo tracce di “Novecento” nella sua formazione, se non in qualche opera. Ora c’è da domandarsi da dove mai venisse l'amore di Capaldo per quelle forme piene e scultoree, per quella pittura dove la figura umana, il nudo, assumono un ruolo centrale nella sua ricerca, dove un nutrito corpus di disegni rappresenta il cuore della sua poetica, esplicata da un fare monumentale. Leggendo alcuni cenni biografici sulla formazione dell’artista, scopro un elemento che credo determinante per spiegare quel gusto per la forma piena: è il termine “crastularo”, ovvero ceramista.

L’approccio all’arte del giovane Rubens, avviene attraverso l’uso della creta, materia che conosce ben prima del colore. Il lavoro sulla ceramica è principalmente un lavoro sulla forma: il termine “forma bombata”, che suona così scultoreo, è, tutto sommato, legato alla forma dei vasi (a tal proposito si guardino certe sculture di Maillol). È l’amore giovanile dell’artista per la linea curva, per la forma plastica, per l’ellisse, che darà luogo a quel linguaggio personale di Capaldo maturo. Ammirando gli straordinari nudi del maestro, prima di analizzare il linguaggio della pennellata che merita sicuramente uno studio a parte, noto subito qualcosa che ha poco a che fare con la nostra pittura napoletana, cioè quel modo tipico del Manierismo di allungare i corpi e rimpicciolire le teste (proprio di un Pontormo e di un Rosso Fiorentino) come anche la resa di incarnati lividi, molte volte ottenuti con toni freddi di straordinaria raffinatezza.

Potremmo paragonare la ricerca di Capaldo sul Manierismo a quella dello scultore Emilio Greco che in scultura sperimentava in quegli anni tale linguaggio.

Questo avvicinarsi al Manierismo è nato sicuramente da un’esigenza interiore, legata, come dicevo, alla sua formazione di matrice scultorea che consente di focalizzare il proprio lavoro sulla forma, essendo peraltro padrone di molteplici tecniche e profonde conoscenze di mestiere. La pennellata, come dicevamo, ha un forte rapporto con l’opera di Crisconio, il quale riesce a coniugare i toni cupi ereditati dal Seicento e appresi dall’opera del Cammarano, con una visone moderna e costruttiva che passa attraverso l’opera di Cèzanne. Capaldo capisce che la pennellata, il gesto nervoso e costruttivo, sono il compimento della sua ricerca sulla forma pittorica. Pennellata che risente dell’esperienza del ceramista, la materia brillante e luminosa di certe opere mature che fanno pensare alla lucentezza degli smalti tipiche delle maioliche. In questo modo il maestro non si accontenta solo dell’aspetto costruttivo e luminoso (la famosa sintesi cezanniana di forma-colore-luce), ma altri aspetti di natura simbolista e visionaria accompagnano il suo lavoro, dando un’originale impronta alla sua ricerca. In alcuni dipinti il fondo sembra compenetrare con i volumi che compongono la figura, andando a sfaldare i piani, creando un’atmosfera luminosa, suggestiva ed unica. Dunque Capaldo è un artista ricco di suggestioni, con una formazione del tutto originale e con una personalità complessa e raffinata. Grazie a queste caratteristiche, la sua pittura ha sicuramente un respiro europeo, conferma indiscutibile della nostra ricchezza culturale, che tante volte la nostra città purtroppo nasconde sotto l’ombra del provincialismo e dell’ignoranza.

(Paolo La Motta)

 
Di Admin (del 18/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2324 volte)
{autore=cherubini andrea}


L'opera riporta firma, luogo e data in rosso in basso a sinistra: "A. Cherubini - Capri - 1901" e titolo sempre in rosso, in basso a destra: "Casa di Olconio - Pompei".

ANDREA CHERUBINI (Roma, 1831 - Capri, 1905)
Dopo aver studiato e fatto il suo apprendistato a Roma, dipinse nel Lazio e spesso in Campania sino a trasferirsi a Capri, nel 1880, sposando una giovane isolana. La sua produzione artistica è vasta e comprende sia oli che acquerelli. Il suo soggetto preferito è Capri ma di lui si conoscono anche nature morte e paesaggi ischitani. Esordì nel 1865 esponendo a Roma con la Società Amatori e cultori, paesaggi laziali: “Campagna romana con capre”, “Campo verde con anatrelle”, “Bufali con antico rudere”, “Nevata”, “Paesaggio con bovi” e “Veduta del Colosseo”; nel 1870 alcune nature morte; nel 1871 dipinti di genere e dal 1872 in poi motivi capresi; nel 1883 una marina ed in altre esposizioni figurò con otto vedute di Capri, con “Veduta dell’isola d’Ischia” e “Dintorni dell’isola d’Ischia”. La sua produzione si divide tra una più commerciale e una in cui l’artista sembra ricercare una dimensione onirica e quasi surreale del paesaggio. Eseguì anche dipinti a tema religioso e lavorò per la chiesa del Sacro Cuore a Castro Pretorio a Roma. Delle sue opere più significative possiamo ricordare: “Marina di Capri” del 1873, ”Il mare veduto dall’isola di Capri”, ”Grotta Azzurra” del 1879 e ”Salto di Tiberio” del 1885.
(Roberto Rinaldi – Pittori a Napoli nell’Ottocento)
 
Di Admin (del 30/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2461 volte)
{autore=sannino ettore}


L'opera riporta firma e data in basso a sinistra: "E. Sannino - 1952" e sul retro della tavola c'è il cartiglio dell'autore col titolo: "Meriggio in giardino. Ettore Sannino - Portici".

ETTORE SANNINO (Portici, 1897 - 1975)
Dopo gli anni di guerra aveva potuto tardivamente iscriversi all’Accademia di Belle Arti, dove si sarebbe formato come scultore nel solco del magistero di artisti quali Achille D’Orsi e Luigi De Luca, conseguendovi il diploma nel 1922 e iniziando una intensa attività come scultore in marmo e bronzista, che si protrarrà con successo per venti anni. Nei mesi convulsi che portarono al tragico epilogo l’avventura bellica voluta dal fascismo, Sannino prenderà in mano pennelli, colori ad olio e tele dando il suo addio definitivo alla scultura. E alla pittura resterà fedele per il trentennio successivo. Al suo esordio come pittore, un sicuro punto di riferimento per lui fu certamente il magistero dell’amico Luigi Crisconio, che proprio a Portici aveva dedicato alcune tele di particolare suggestione. Che un artista attivo nel campo della statuaria passasse all’attività pittorica non era di per sé un evento raro. A rendere, tuttavia, peculiare e alquanto insolita la scelta compiuta da Ettore Sannino è il fatto che l’abbandono della scultura e la complementare passaggio alla pittura risulteranno nel suo caso scelte definitive e irreversibili. La pittura aveva enormi vantaggi, in particolar modo per la relativa “facilità” tecnica e per la “leggerezza” e duttilità espressiva, oltre che per l’economicità di tempi e costi realizzativi.
 
Di Admin (del 06/04/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5604 volte)
{autore=de stefano armando}


L'opera è firmata e datata in basso a destra: "A. De Stefano 1976". A tergo sono: titolo, data, firma, tecnica e un numero di archivio apposti dall'autore: ""Il fauno '76", A. De Stefano, tempera, 5138". Il dipinto è corredato dall'autentica diretta dell'artista su foto (del fronte e del retro) in bianco e nero, dove il maestro specifica che, tra l'altro, la tecnica usata è quella dell'olio.

DE STEFANO, DENTRO LA VITA LA SOLITUDINE DEL LEONE.
Domenico Rea scrisse che Armando De Stefano ha "la capacità di scendere nel cuore delle cose e di riportarle in luce, in colore, senza rinunciare a nulla di napoletano". Pittore di confine, alla soglia degli ottant’anni De Stefano ha appena pubblicato un bel libro antologico, Continuità nel realismo, a cura di Arturo Fratta. E già quel titolo è una rivendicazione di resistenza alle mazze e piveze - così lui le definisce - che oggi invadono gli spazi dell’arte. «Sono nato al Borgo Orefici. Papà Luigi era cassiere di banca, mamma Assunta curava la casa e cuciva i vestiti per noi tre figli, io il terzo. Fu lei a chiamarmi Armando come l’Armand Duval dell’amata Signora delle camelie. Bella la vita in quel quartiere popolare. In piazza Mercato fittavavamo le biciclette, sorbivamo le rattate di ghiaccio tritato e colorato di sciroppo, ascoltavamo le anziane narrare le leggende della rivoluzione del 1799. Per loro Eleonora Fonseca Pimentel era una malafemmena». Quando cominciò a dipingere? «Alle elementari. Non ho mai fatto i disegni dei bambini, e mi dispiace. La matita nella destra, ritraevo la mano sinistra aperta e viceversa. Mio zio Francesco Parente, scultore, m’incoraggiava, ma papà non voleva, ne aveva visti troppi di artisti in miseria, nella sua banca. Però fu lui a far crescere la mia voglia. Mi parlava di Gemito, perché andava a casa sua ogni tanto a portargli un assegno di Mussolini. Gemito faceva il the, non glielo offriva, prendeva una carta gialla, di quelle usate per il sapone, e disegnava un cavallo, un pesce, un cervello. "Portatelo all’eccellenza", era il suo modo di disobbligarsi. Arrivato in quarta il direttore decise di usare la mia abilità. Invece di studiare, disegnavo a tempo pieno. Ritratti del generale Diaz, della regina che offre l’oro alla patria. All’esame di ammissione temevo di essere bocciato, ma mi aiutarono». Fece subito studi artistici? «No, m’iscrissero al magistrale Margherita di Savoia. Di pomeriggio si tenevano corsi di pianoforte e violino, così m’innamorai anche della musica. Ma non si possono fare tante cose insieme. Ho nutrito quasi un senso di colpa per aver lasciato la musica; per attenuarlo ho sempre tenuto un piano a coda nello studio e ho donato disegni di strumenti al conservatorio, quando lo dirigeva Roberto De Simone». Che ricordo ha della guerra? «Fame e paura. All’inizio era quasi divertente scendere nei ricoveri, vedevi le ragazze in abbigliamento più intimo. Ma poi uscivi, vedevi le case distrutte, e montava l’angoscia. Tornata la pace, passai al liceo artistico". E fece i primi quadri veri. «Ritraevano certi uccelli, soprattutto anatre. Usando lo specchio dell’armadio della padrona di casa feci il primo autoritratto, lo conservo. L’arrivo degli Alleati fu un vantaggio anche personale. Mio padre era amico di un certo Ciappa, copista della Tate Gallery di Londra, che mi consigliò di fare i ritratti agli ufficiali americani e inglesi. Andavo alle batterie contraeree munito di una tavoletta e di un blocco di carta. Ogni disegno, tre AM lire. Ne esposi uno, come pubblicità, nella libreria Lepre in via Costantinopoli. Funzionò, facevo fino a tredici ritratti al giorno. Fu una grande lezione e campammo tutti un po’ meglio. Ma poi Napoli si spopolò e addio affari». Suo padre comunque aveva cambiato idea. «Macché. In famiglia erano tutti ragionieri, gente quieta. Dopo la maturità mi disse: iscriviti almeno ad architettura, pure quella è un’arte. Resistetti un anno. Gli dissi: non ti preoccupare, me la vedo io. Magari andrò a Parigi o a Londra, e se va male laverò i piatti. All’Accademia feci l’incontro meraviglioso con Emilio Notte: grande pittore, grande didatta. Disse: "Ricordati che i leoni camminano da soli", questa frase mi ha accompagnato per tutta la vita, la lezione morale di Notte mi ha guidato in 42 anni di insegnamento. Al terzo anno di Accademia vinsi il Premio De Gasperi a Roma ed esposi alla Biennale di Venezia, dipinti di figure allungate. Grazie a una mostra al Grenoble conobbi Picasso, Braque, Matisse. Fu uno choc. Presi a fare cose discontinue, a cercare una mia strada». Erano anni di ricostruzione e di speranza. «Nel 1946 m’iscrissi al partito comunista. Papà era di sinistra, ma subii soprattutto l’influenza ideologica del pittore Raffaele Lippi, reduce dalla Russia. Dal 1950 tenni rapporti con i compagni di Roma, a partire da Renato Guttuso. Sperimentai un linguaggio di grande ricchezza, frequentai camere del lavoro e case del popolo, contadini calabresi e lavoratori delle risaie. Facevamo murales, grandi pannelli per le feste dell’Unità. E se prima non avevo il coraggio di dire una parola, imparai a parlare in pubblico. Mi sentivo un pittore con una funzione, oggi mi sento un isolato. Feci una mostra in America con il gruppo realista. Nel ‘54 fui premiato al Festival della Gioventù a Mosca, ero un ‘pittore del popolo’; presentai un nudo, quello della ragazza che vendeva sigarette sotto casa». Quanto durò quel periodo? «Il XX congresso del Pcus fu lo spartiacque. Il partito girò le spalle al realismo, convogliò intellettuali di pareri ben diversi. Guttuso si girò verso gli americani, la pop art. Fu un aborto. E venne una prima rottura tra noi artisti. Dopo l’invasione dell’Ungheria non rinnovai la tessera. C’era anche una crisi di linguaggio, un nuovo tipo di operaismo nell’arte ci esponeva al rischio di una iconografia di tipo fascista. L’apologia non ha niente a che fare con la realtà, ch’è complicata. Alla fine degli anni Cinquanta, alla Biennale di Venezia, entrai in contatto con un pittore che aveva capito le contraddizioni della realtà: Francis Bacon. Fu un arricchimento. Gli operai oramai volevano diventare borghesi. Per cogliere opposte sfumature occorrevano immagini meno ieratiche, perfino più ambigue». Ciò nonostante, lei seguì la continuità nel realismo. «Ma con strumenti diversi, ispirandomi al cinema e alla storia, quella valida per l’oggi. Cominciai con Masaniello, una grande mostra a Roma e poi a Firenze. Mi aveva colpito un libro di Vittorio G. Rossi, Miserere per i fichi; narrava di un rappresentante di detersivi che si trova nelle strade napoletane del ‘600. Misi un microfono in bocca a Masaniello, lo trasformai in tribuno di piazza. Come colonna sonora presi i canti popolari raccolti da De Simone. Fui affascinato da altre figure di uomini inghiottiti dalla rivoluzione, come Marat, come Lumunba. E le dipinsi». Poi venne il ciclo di Odette e il Jolly. «Fu presentato da Giovanni Testori, geniale amico. La mostra andò a Londra e in Spagna. Per me Odette era la Francesca Bertini dei film muti visti da bambino, una suffragetta a cavallo di due secoli che si innamora di un anarchico. In fondo, un romanzo a fumetti riscattato dalla presenza di un jolly che, come nelle carte, risolve i problemi, nel bene e nel male. Seguirono le Maschere, cui ho dato un senso diverso: utili non a mimetizzarsi bensì a essere se stessi, disinibirsi». E’ ricorrente l’uso di certi simboli rovesciati. «Forse. Ad esempio il ciclo del Mercato dei Miti. Dopo la guerra si vedevano sulle nostre bancarelle fez e pugnali fascisti; sulle bancarelle dell’Est cappelli e distintivi dell’Armata Rossa. Smitizzati. Ciò che fa paura può diventare oggetto di scambio da pochi soldi. E per Dafne stranamente m’ispirai a D’Annunzio più che a Ovidio. Fu un grido di critica sociale: pensavo al trasformismo, alla vergogna della gente che passa da un partito all’altro». Una vena libertaria, di sostegno agli sfavoriti percorre tutto il suo lavoro. «Feci gli Esclusi, l’idea mi venne da un magnifico libro di Sergio Piro con le foto di Luciano D’Alessandro. Ma gli esclusi non sono solo i pazzi, escluso è chiunque è tenuto in disparte perché non accetta le speculazioni. Li presentai a Napoli, a Palazzo Reale". E venne il ciclo del 1799. «Cominciai negli anni ‘70 con ritratti di Championnet, Nelson, Cirillo. M’ispirarono i racconti delle vecchiette di piazza Mercato. Feci una mostra a Palazzo Reale nel 1989, ho ripreso il tema per il bicentenario. Ho molte tele sulla rivoluzione napoletana, la decapitazione di Eleonora, i Francesi... Non le vendo, voglio donarle al comune di Napoli. Ne parlai con Guido D’Agostino quando era assessore, disse che voleva sistemarle in un museo da aprire in una chiesa del Mercato. Non ebbe il tempo. Ne ho parlato con la Furfaro, dice che quel progetto non esiste. Magari ne parlerò con Spinosa, il Museo di San Martino sarebbe la sistemazione adatta. Spinosa ha voluto due miei dipinti a Capodimonte, due spaventapasseri. E non ho rinunciato a salvare la statua di gesso di Jerace sul 1799. Gerardo Marotta la ripescò per esporla a Sant’Elmo, è finita nel cortile di Palazzo San Giacomo. Era passata la mia tesi di tradurla in bronzo, bastavano 50 milioni. Invece sta lì e può andare in pezzi al primo urto. E però nelle vie ci sono i tralicci di Kounellis». Non la convince, è noto, la politica napoletana dell’arte. «Ho l’impressione che Napoli abbia vissuto una sindrome delle avanguardie, eccessiva, correndo il rischio di cadere nel provincialismo della smania del nuovo. Diceva Carrà: ‘Di cose nuove è pieno il mondo, cioè diventano vecchie’. Non c’è cosa più vecchia e stantia di un’avanguardia superata. Non sono contro l’avanguardia in sé, vorrei solo una dialettica fra le varie tendenze. Se l’avanguardia diventa cultura di Stato, che avanguardia è? Diventa un termine militaresco, come eia eia alalà. Diceva Testori: ‘Non bisogna mai confondere avanguardia e modernità’, ossia tutto ciò che accade attorno a noi, filtrato senza civetteria, senza mode. Io sono un pittore moderno, non di avanguardia. Il Pan, il Madre, le opere in piazza Plebiscito: va tutto bene, però non si può portare una certa esterofilia all’esasperazione. E non parlo di napoletanità, e non lo dico perché non c’è un quadro mio sotto il metrò. Lo dico perché così si distrugge la cultura mediterranea, quella di Picasso per capirci. Non basta portare il mondo a Napoli, dobbiamo portare Napoli in tutto il mondo». Dica qualcosa che l’è piaciuto di recente. «All’ultima Biennale di Venezia ho incontrato il pittore Freud, nipote dello psicanalista. Bravissimo, trasgressivo, ambiguo. Nel mondo esistono fenomeni veri, perché mortificarli? Sto lavorando anch’io sulle trasformazioni dell’ambiguità. Ho avuto il ‘600, Cammarano, Gemito, i miei vecchi. Ho scelto questo mestiere perché amavo i pennelli, i colori, la tela, la puzza dell’acqua ragia, il corpo umano. Ma le passioni antiche, gli strumenti eterni dell’arte, devono sempre servire alla modernità». PIETRO GARGANO (da “Il Mattino” del 6 novembre 2005)
 
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