|
Pubblicata in data 8 Marzo 2006 Pittori a Portici nel '900: Errico Placido Errico Placido. (Napoli, 1909 – Portici, 1983). È vissuto a Portici sin da bambino. Ha dipinto per circa mezzo secolo ed ebbe ad affermarsi sin dal 1938 alla Sindacale d'Arte di Napoli. Numerose sono le sue presenze nelle rassegne e personali in tutta Italia. Placido si colloca con le sue opere fra l’esperienza francese dei Fauves e quella degli espressionisti tedeschi. La sua ricerca si distacca da ogni sorta di legame con la tradizione napoletana, della quale conserva solo la propensione per alcuni temi, primi fra tutti le marine e le nature morte. Egli nella sua vita quasi sempre movimentata, quasi sempre incerta, che si è svolta in un gioco di sensazioni e di emozioni, di entusiasmi e di avvilimenti, non ha fatto altro che il pittore, il pittore che vive con la pittura e della pittura. Iniziò tanti anni fa con Luigi Crisconio a Portici. Era appena un adolescente, e seguì il maestro nelle sue faticose peregrinazioni per le campagne vesuviane e le spiagge del golfo di Napoli, con lunghe soste sotto il sole, alla ricerca del motivo. Tornava a casa stanco, stordito ma contento di aver dipinto sotto la guida di Crisconio. Era nato pittore. Crisconio, pur così rapido, così impetuoso nel dipingere, spesso rimaneva sorpreso dalla furia con cui il suo giovanissimo allievo e amico realizzava un paesaggio. Da quel tempo ad oggi, Errico Placido ha dipinto migliaia e migliaia di quadri, vagando da un capo all'altro d'Italia. Egli stesso ha dettato un epigramma a esplicazione della sua pittura: “Credo che la pittura sia poesia delle immagini, e sono felice di averle offerto la mia esistenza, sereno malgrado stenti, ansie e fatiche. Ho cercato di capire al tempo briciole di vita; di registrare l’eco del mare; di cogliere il vasto respiro della mia terra; di esaltare la fatica degli umili; di confortare il dolore della mia gente”. Sono parole schiette, scevre d’ogni incrostazione retorica, che, al pari di una confessione, illuminano intorno a un uomo e a una pittura. Intorno a un uomo che s’avvale della pittura per evocare l’oggetto costante del suo amore: Napoli. Placido, infatti, deve essere annoverato fra gli interpreti più puntuali di Napoli, di un paesaggio dove la solarità mediterranea par di continuo naufragare nella malinconia, e della gente di Napoli, all’apparenza sorridente e chiassosa ma in effetti pregna di quella stessa malinconia. La pittura di Placido si palesa meditata e sofferta, per intero dischiusa ai sensi profondi e riposti che la realtà disvela all’artista. Pittura intesa come gesto “necessario” giacché, dipinto dopo dipinto, corrisponde ad un’esigenza interiore maturata nel muto colloquio che quotidianamente l’artista imposta col mondo che lo circonda e dal quale trae linfa alle sue giornate. Il pregio che caratterizza l’opera di Placido è originato dalla facoltà propria dell’artista di accordare un particolare momento del reale a un momento del suo spirito, e perciò di conferire all’immagine la pregnanza di una esperienza la più intima ed intensa. Sempre in Placido preme un dolente patire, una sottile mestizia che ossida il cielo ed il mare, il senso di caducità delle cose, l’inevitabile fluire dell’esistenza verso una caduta irreparabile. Allo sguardo dell’osservatore, trascorrono le molteplici effigi della realtà partenopea: figure di giovani donne nelle quali la speranza pare pacarsi al fiato di un presentimento di dolore o figure di donne adulte sulle quali crudelmente si depositano i segni stinti di rare gioie e di troppe sofferenze. Anche figure di poveri teatranti, di clowns straccioni, di malinconici Pulcinella che tentano ancora un ultimo spettacolo per donare una risata fittizia in cambio di un tozzo di pane e una scodella di minestra. Placido scandaglia la realtà napoletana con particolare frequenza, forse nel ricordo di personali vicissitudini che trasformano la sua adesione a quei protagonisti in un tenero atto d’amore. |