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Autore:

EMBLEMA SALVATORE

N - M:

Terzigno, 1929 - 2006

Titolo:

Senza titolo

Tecnica:

Terre vesuviane su tela di juta

Anno:

1967

Misure:

170 x 138 cm

Note descrittive: Giulio Carlo Argan (dall’“Espresso” del 22 aprile 1979) : Dipingere? Meglio detessere. La bella mostra di Emblema, nella villa Pignatelli a Napoli si deve al soprintendente Raffaello Causa ed è un atto di giustizia che la critica intelligente doveva ad un pittore campano ormai cinquantenne, del quale non può dirsi davvero che sia stato profeta in patria. Del resto non a Napoli si è formato, ma viaggiando in Europa e in America e lavorando per due anni vicino a Rothko, uno dei grandissimi della pittura del secolo. Ne seguita il discorso ragionato sull’essere-in-sé del quadro e cioè non sul messaggio ma sull’intrinseco della pittura. Il quadro è sempre schermo, ma non più schermo di proiezione. Interrompe col suo piano l’unità dello spazio e, imponendo una pausa e un momento di oggettivazione, la continuità del tempo. Non sopportandolo, Fontana ha risolto il problema da schermidore, a colpi di punta e di taglio. Emblema lo affronta con pazienza e umiltà di artigiano sfilando la tela e diradando la superficie, gravando contemporaneamente la mano sulla rude carpenteria del telaio. Fino a questo punto la ricerca rientra, a suo modo, nella casistica abbastanza diffusa del rapporto superficie-supporto; ma il dilemma del mezzo e del messaggio, del quod significat e quod significatur non si risolve con atti di scelta, implica la compenetrazione o l’osmosi dei due termini, e questa operazione ha la durata dell’operazione artigianale, rovesciata, del detessere. Anche per Rothko, il quadro non era una cosa dentro lo spazio, ma un generatore o un’emittente di spazio: più illuminante che illuminato, dacché non si riduce la metafisica dello spazio se non intendendolo, fenomenologicamente, come luce. Sfilando la tela, lo schermo diventa filtro e permette al pittore, mentre fenomizza la luce, di dosarne l’effusione e la vibrazione con I’arpeggio delicato dei fili. L’alterità, allora, non è più tra superficie e supporto, quadro e spazio, ma tra trasparenza e opacità: i due termini a cui Philippe Junod, nell’ottimo saggio «Trasparence et Opacité» (1976) ha in sostanza costretto l’antitesi soltanto fittizia di impressionismo e simbolismo, al tempo stesso proponendo una lettura nuova e diversa, quanto mai suggestiva, della teoria della visibilità del Fiedler. È trasparenza la mimesis o rappresentazione, che distingue tra realtà e apparenza ricercando la prima sotto la seconda; è opacità la poiesis, il cui significato non va oltre la fisicità della materia e del gesto del fare. Senonché, non potendosi prescindere dallo spazio e dal tempo senza assurdamente prescindere dall’esistenza, nello stesso momento in cui cessa di essere piano di proiezione e di avere una dimensione metafisica, il quadro diventa una trappola che trattiene con la luce lo spazio e il tempo. Il lavoro di detessitura è appunto una lenta destrutturazione dello schermo per recuperare la trasparenza dall’opacità svelando la spazialità interna della materia prima della pittura, la tela. Non essendo più rappresentativo, il quadro è oggetto simbolico; e, come osserva Junod a proposito della dualità di impressionismo e simbolismo, «il simbolo è l’equivalente funzionale dello schermo». Anche per Rothko il quadro doveva essere il luogo dove spazio e tempo, unificati, erano ad un tempo interamente simbolici e interamente visibili. Un altro punto è importante: non si può fare un discorso serio sulla pittura seguitando a dipingere. Il lavoro di Emblema è pittura non dipinta. Però il discorso sulla pittura non può eludere la presenza del colore e della luce. In alcuni quadri del ‘66 fasce di colore opaco incorniciavano il trasparente della tela, solidarizzando con il telaio; nei più recenti, una tinta rada e spenta intride la tela, s’immedesima con la sua grana. Nessuna ambizione, dunque, di dimistificare la pittura o di sciogliere la sua ambiguità di fondo, per cui volendo creare si fa il contrario, si imita; all’opposto, praticando un lavoro manifestamente manuale e non-creativo, risalendo e diradando la materia si ritrova la luce, lo spazio, il tempo, la forza significante e non traslata del simbolo. Contestando il dualismo e scoprendo una possibile coesistenza di trasparenza e opacità, Rothko aveva raggiunto una delle posizioni più avanzate nella ricerca moderna. Senza pretendere di superarlo, Emblema ha riaperto all’interno di quella sintesi un processo di analisi: il suo principale interesse, oggi, sembra quello di mostrare che non tutti i quadri sono dipinti, il quadro è ciò che si cerca attraverso il mezzo della pittura e non significa se non la propria esistenza oggettuale, è simbolo di se stesso. La soglia storica della pittura è probabilmente stata raggiunta da un pezzo; ma indubbiamente ci sono ancora dei problemi che trovano la loro soluzione, l’unica possibile, nella dimensione spazio-temporale del quadro.

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