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Autore:

LIPPI RAFFAELE

N - M:

Napoli, 1911 - 1982

Titolo:

Manichino con drappo

Tecnica:

Olio su cartone

Anno:

1940

Misure:

35 x 21 cm

Note descrittive: Ferdinando Bologna, 2004: Le radici del reale. Il silenzio che da circa un ventennio è sceso sull’opera di Raffaele Lippi è un aspetto di un fenomeno più generale: quello della sostanziale perdita di contatto con le radici che caratterizza tutto il mondo contemporaneo. La tendenza principale, specialmente nelle ultime generazioni, è di scavare un fossato tra ciò che ha rappresentato la storia precedente e quello che adesso si contrabbanda come assoluta novità. Questo iato è la cagione della perdita della prospettiva storica e persino della memoria difatti che hanno contato, anche in un passato recente. Nella società dello spettacolo, dove il presente appare privato del suo spessore storico, una cosa vale l’altra e le persone, incapaci & distinguere e di giudicare la diversità dei risultati, guardano le cose con indifferenza e le vedono scorrere sotto i loro occhi come se fossero tutte uguali. Entro questo quadro il fenomeno della trascuratezza nei confronti di una personalità come quella di Raffaele Lippi è tanto più significativo perché riguarda un artista nel quale invece il sentimento della profondità storica dei fatti è stato vivissimo. [...] Il punto fondamentale, che voglio ancora una volta sottolineare, è che in Lippi la radice del reale, come esperienza esistenziale profonda, non viene mai meno ed è l’elemento caratterizzante della sua pittura, in tutta la varietà dei suoi registri espressivi. Anche nei momenti più esasperatamente espressionistici o visionari, anche nei momenti in cui le forme o le figure riconoscibili deflagrano, la radice realistica resta profonda e agisce, come del resto è sempre avvenuto in tutti gli esempi più alti del movimento espressionistico europeo. Che poi nella pittura di Lippi tutto ciò si colleghi alla persistenza di una certa compagine plastico-chiaroscurale, può anche sostenersi, purché non si riduca la matrice realistico-esistenziale al chiaroscuro nella sua formulazione accademica. il modo di costruire la forma in Lippi richiama, se mai, il miglior Sironi non il Sironi “muralista”, ma quello delle periferie industriali — e Permeke, che con ogni probabilità Lippi deve aver conosciuto, io penso, proprio alla Biennale di Venezia del 1948, dove il pittore di Anversa fu presentato con una personale importante. Quella Biennale, la prima dopo la parentesi della guerra, fu importante per tutti noi. Essa presentava una fascia di scelte, la maggior parte delle quali era stata consigliata da Roberto Longhi in antitesi a Lionello Venturi. [...] Paolo Ricci aveva ragione nel richiamare l’elemento napoletano e in qualche modo crisconiano della pittura di Lippi. Ma Raffaele aveva una storia più complessa, perché a parte l’autoritratto del 1925, che è legato manifestamente a Antonio Mancini, tutta una serie di quadri, su cui ora Maria Corbi ha richiamato l’attenzione, mostrano come Lippi in effetti visitasse con partecipazione profonda, da pittore, i momenti salienti della grande tradizione italiana posteriore alla crisi di «Novecento». Occorre, perciò, valutare al più alto livello la rivisitazione anche disordinata di queste matrici che precede nettamente il presunto incontro con Crisconio. Credo, inoltre, che si debba dare una maggiore importanza ai rapporti — rapporti di conoscenza di opere, forse non di persone — che Raffaele deve avere avuto con il gruppo romano rappresentato soprattutto da Scipione e da Mafai. Ma le Macerie di Lippi, oltre che rimandare alle Demolizioni di Mafai, mostrano la capacità di Lippi di risalire ad una certa matrice seicentesca. Su questo punto posso portare addirittura una testimonianza personale. Il capolavoro del cosiddetto Maestro dell’annuncio ai pastori, che si trova oggi a Capodimonte, a suo tempo era accantonato nel Museo di San Martino e riferito ai nomi più diversi, compreso quello di Luca Giordano. Mi ricordo che nel periodo in cui almanaccavo intorno a questo quadro che consideravo il più importante del Maestro, che è il vero protagonista del grande Seicento napoletano degli anni Trenta, andai a San Martino insieme a Raffele Lippi (si tratta di cosa intorno al 1954). Ebbene, le esternazioni di Lippi sul quadro comprovavano come il suo interesse verso questo momento caldamente pittorico e ancorato ad una realtà esistenziale dolentissima nascesse da frequentate visitazioni di quella parte più attiva e più originale della pittura napoletana seicentesca derivata dal Caravaggio, e dimostravano come lui avesse dimestichezza con quella linea di ricerca e la avesse già apprezzata in precedenza. La matrice realistica cui ho prima accennato, mai abbandonata da Lippi in tutta la sua attività, si era nutrita dunque anche di questo, aveva una sua precisa qualificazione culturale. Nasceva certo dalla realtà, ma anche dalla considerazione di come quella stessa realtà fosse stata vista in precedenza da questo grande rappresentante del naturalismo napoletano. E non si trattava, per il Maestro dell’annuncio ai pastori, di un naturalismo da reportage, bensì di un naturalismo espressivo, interpretato con quella straordinaria ricchezza pittorica che ha fatto parlare il De Dominici di «tremendo impasto». E non è un caso se qualcosa di quel «tremendo impasto» è presente nelle Macerie di Lippi, in quella densità pittorica espressionisticamente sconvolta che è cosa completamente diversa dal tonalismo di Mafai e della scuola romana. [...]

Atre opere: